Rappan

L’Italia di Mancini a Marzo si giocherà la possibilità di disputare il prossimo Mondiale, in un doppio confronto che promette tensione ed emotività intensa; la Svizzera, vincendo a sorpresa il girone, ha vendicato la sconfitta subita agli ultimi Europei, guadagnandosi così una primavera certamente più serena. Nelle intersezioni multiple, e anche calcistiche, tra il nostro Paese e la terra elvetica, è questo l’ultimo capitolo di una storia profonda e aggrovigliata. Risalendo alle origini della tradizione calcistica italiana, vi è un legame importante da esaminare: l’amato e odiato catenaccio, onore e onere della nostra nazione calciofila, ha un suo precursore nel verrou proposto da Rappan, alla guida della Nazionale svizzera. Si tratta di un racconto denso e complesso, del quale cercheremo di restituire almeno un abbozzo.

Germania-Svizzera e il Mondiale del 1938: il trionfo di Rappan

Per Adolf Hitler il calcio diviene presto un mezzo non trascurabile nella volontà di diffondere nel mondo l’ideologia del Nazionalsocialismo. Nulla di nuovo, in fondo: per l’amico e alleato Benito Mussolini, il football si era rivelato uno strumento assai potente per la propaganda del regime, decisamente orgoglioso di poter celebrare la nuova (e presunta) grandezza italica tra pedate agonistiche, acrobazie del Meazza e una Coppa del Mondo conquistata proprio in patria. Così, alle Olimpiadi casalinghe del 1936 (quelle note soprattutto per l’umiliazione inflitta al Fuhrer dall’afroamericano Owens), in Germania si crede che anche il calcio possa contribuire alle glorie presenti e venture dell’uomo ariano. Eppure, la storia prende presto una piega abbastanza imprevista: i tedeschi al primo turno si scontrano con la modesta Norvegia e si ritrovano eliminati, lasciando ai cultori del Nazionalsocialismo il gusto amaro di chi, prima o poi, comprende di essere il “meridione” di qualcun altro. Così a Hitler non resta che sostenere l’Austria (ormai una sorta di protettorato tedesco) nel cammino verso la finale, con l’auspicio, così, di poter fornire un qualche sostegno alla retorica sempre più in auge del Pangermaneismo. Anche in tal caso, però, gli ostacoli non sono assenti ed è inevitabile adoperarsi per sorvolarli: gli austriaci, infatti, sono usciti sconfitti per 4-2 dalla sfida contro il Perù, ma un appiglio al quale aggrapparsi si può trovare. Durante l’incontro c’è stata un’invasione pacifica dei tifosi sudamericani, e al Fuhrer questo può bastare per far sentire la sua voce: partita da ripetere, e i peruviani, fiutando l’aria malsana dell’intrigo, optano con saggezza per il ritiro. Fuori gli avversari, dunque, e l’Austria trova così tappeti rossi e svastiche in direzione finalissima; peccato, però, che anche le residue speranze del Nazioalsocialismo vadano in fumo e questa volta contro la giovane Nazionale di Pozzo, capitanata da Annibale Frossi, ragazzotto occhialuto dal buon talento e futuro assicurato.

Le cose, insomma, non sono andate per i tedeschi nel miglior modo possibile, e occorre attendere un paio di anni per preparare una rivincita: in Francia, nel 1938, i “veri” rapporti di forza dovranno imporsi anche nel calcio. Le premesse sono più che discrete: la Nazionale, guidata da Sepp Herberger (sarà commissario tecnico anche durante il vittorioso e discusso mondiale del 1954) può contare su atletismo, muscoli, ma anche sulla qualità assoluta della scuola danubiana. Poco prima dell’inizio del torneo, infatti, la Federazione austriaca annuncia che non potrà prendervi parte, e per una ragione tanto semplice quanto determinante: è avvenuto l’Anschluss, e d’ora in poi sarà possibile parlare dell’Austria solo in un’ottica tedesca. La Germania calcistica può trarre un certo vantaggio dal noto e drammatico evento: durante il torneo potrà schierare diversi calciatori del Wunderteam austriaco, la squadra di Meisl che negli anni ‘30 ha incantato l’Europa e che ora può alimentare la voracità dei panzer. Tra le nuove forze, però, un’assenza pesa e non poco: Matthias Sindelar, il «Mozart del pallone», ha rifiutato l’invito nazista, probabilmente per fedeltà alla patria, alle sue radici ebraiche e di sicuro a quelle della compagna Camilla Castagnola, una giovane insegnante italiana. I due verranno trovati morti nel loro appartamento il 23 gennaio 1939, in circostanze mai del tutto chiarite.

Durante la competizione, e anche nei mesi a venire, Hitler potrà constatare in più modi la fedeltà degli alleati e anche il rispetto degli avversari: nella partita contro la Francia, gli Azzurri di Pozzo schiereranno, ad esempio, la divisa nera, giusto per ricordare ai transalpini il nuovo ordine della scacchiera. Qualche tempo dopo, poi, il Fuhrer potrà letteralmente leccarsi i baffi quando gli inglesi, in una partita amichevole (persa, comunque per 3-6), omaggeranno i padroni di casa con il saluto nazista, provocando un discreto senso di umiliazione a Londra e dintorni.

In campo, però, è arrivato il momento di un risultato prestigioso e il Mondiale del ‘38 in terra francese è un’occasione più che ghiotta. La partita d’esordio è programmata per il 4 giugno e in campo ci sarà proprio la Germania; il nuovo governo moderato francese, guidato da Èdouard Daladier, intende onorare il Fuhrer, dimostrando che le dinamiche a Parigi sono assai mutate rispetto ai tempi recenti, nei quali a governare erano le forze del Fronte Popolare. L’avversaria dei tedeschi nel match inaugurale sarà la Svizzera, per molti destinata al ruolo di vittima sacrificale. Anche in questo caso, però, la scelta degli elvetici ha una sua logica interna: dopo la crisi finanziaria del 1929, abbastanza intollerabile per le casse transalpine, i rossocrociati si sono offerti per trasferire a Zurigo la sede della FIFA, guadagnandosi così la riconoscenza di Rimet e dei piani più alti del Palazzo del football (cfr. https://www.sinistra.ch/?p=7501). Anche per Hitler e i gerarchi nazisti dover affrontare proprio gli svizzeri non è così irrilevante. Per il programma di espansione del Nazionalsocialismo, gli elvetici sono un ostacolo non trascurabile: se da un lato, infatti, il Fuhrer ha ribadito la volontà di rispettare la proverbiale neutralità della Svizzera, dall’altro, nel corso degli anni, egli stesso coverà a più riprese il progetto di un’invasione del territorio alpino, nella prospettiva di una piena realizzazione del disegno del Pangermanesimo. Nel 1941, Hitler dirà al suo fedele amico Benito Mussolini e a Galeazzo Ciano che «la Svizzera possiede la più disgustosa e miserabile popolazione e sistema politico. Gli svizzeri sono il nemico numero uno della Germania», lasciando intendere chiaramente la volontà di sbarazzasi di un sistema democratico sostanzialmente ripugnante per il totalitarismo nazista; come è noto, però, gli elvetici non saranno mai ridotti al rango degli austriaci e nemmeno a bottino da spartire con gli alleati, conservando l’indipendenza e potendo in fondo farsi gioco di cartine solo ipotetiche accartocciate sulle scrivanie dei gerarchi tedeschi.

L’attesa partita si gioca al Parc des Princes, e per la Germania dovrebbe essere una festa: Herberger schiera ben otto calciatori austriaci, nella convinzione di poter così ricavare i migliori frutti dalla nascita del Terzo Reich. La Svizzera di Karl Rappan, però, è un avversario più che abbordabile per qualità, ma di certo ostico e non facilmente superabile nell’organizzazione: gli elvetici, infatti, dimostrano di saper giocare corti e compatti, chiudendo gli spazi e andando a ostacolare la tecnica superiore dei tedeschi. Lo spirito di resistenza e battaglia dei rossocrociati è sufficiente per arrivare a ottenere un non sperato pareggio, che significa anche replay.

Il 9 giugno, allora, le due partite si incontrano nuovamente, e questa volta la storia sembra procedere come da copione; la Germania si porta in vantaggio per 2-0 e a Berlino e dintorni si inizia già a pensare al prosieguo del cammino nella competizione. Gli svizzeri si dimostrano però non poco tenaci, non accontentandosi nemmeno di un poco prevedibile 2-2, ma segnando addirittura 4 reti e lasciando così discretamente sbigottiti i calciofili tedeschi. Germania-Svizzera si è conclusa 2-4, con il difensivismo elvetico che è risultato più efficace e vincente della classe e dei muscoli austro-prussiani. Dove ha avuto inizio tutto questo?

Chapman e la nascita del Sistema

Negli anni ‘20 accade qualcosa di insolito nel calcio e, come è prevedibile, tutto parte dall’Inghilterra: i goal crollano, lo spettacolo diminuisce e occorre trovare una soluzione. Una svolta arriva nel corso del 1925, ed è un passaggio in qualche modo rivoluzionario: l’Ifab decide di modificare la regola del fuorigioco, nella speranza, così, di riconquistare pubblico e critica. Da quel momento in poi, non sarà più necessario per l’attaccante avere davanti a sé tre difensori avversari per essere ritenuto in gioco, ma ne basteranno due; tirare in porta sarà, si pensa, decisamente più agevole, le reti aumenteranno e il football potrà riconquistare il suo splendore. In effetti, tutto ciò accade, ma un problema risolto, nel gioco come nella vita, spesso ne apre altri e risulta inevitabile industriarsi per sciogliere i nuovi nodi. Ad accorgersene molto presto è Chapman, nuovo tecnico dell’Arsenal, e all’unanimità uno dei più grandi allenatori nella storia del calcio.

Figlio di un minatore di Kiveton Park, fin da giovane Herbart si mostra più a suo agio con il pallone che con il carbone. In realtà, la famiglia lo vorrebbe laureato e il football diviene per Chapman il mezzo principale per finanziare gli studi (la laurea in ingegneria mineraria arriva nel 1903). A dirla tutta, non siamo davanti a un fuoriclasse assoluto; Herbart Chapman con i piedi è mediocre, ma la testa frulla idee nuove a velocità invidiabile. Chapman il calcio lo pensa, e il talento si fa riconoscere con rapidità; da allenatore-giocatore del Northampton vince la Southern League (partendo dall’ultimo posto in classifica) e può così aspirare a palcoscenici differenti. Dopo una parentesi al Leeds city (conclusa con la cancellazione del club, a causa di uno scandalo finanziario), Herbart nel 1920 diviene tecnico dell’Huddersfield, una società appena promossa in prima divisione senza un passato di glorie. Chapman si dimostra tattico, preparatore e manager: programma gli allenamenti con scientificità, si circonda di esperti, utilizza lavagnette e schemi. Il football, insomma, riesce a rivoluzionarlo, e sarà così per sempre. Sotto la guida di quello che è un generale e un genio, l’Huddersfield vince due campionati consecutivi, ritrovandosi così, inaspettatamente e anche per troppo poco, al banchetto degli dei.

Nell’estate del’ 25 Herbart Chapman si trasferisce a Londra, alla guida dell’Arsenal, fiutando in fretta la nuova aria nel campionato, con la penuria di goal ormai convertita (a causa della nuova regola) in un’abbondanza perfino da arginare. Nel mese di ottobre, in trasferta contro il Newcastle, la squadra londinese perde 7-0, ed è già momento di riflessioni. Nei giorni successivi l’ex ingegnere, ormai da tempo totalmente convertito al calcio, ha un’idea tattica che si rivelerà determinante: per cercare di aggirare la nuova regola sul fuorigioco, è possibile ricreare la superiorità tattica in fase difensiva abbassando un centrocampista.

Il punto di partenza, nella costruzione del nuovo modulo, è la cosiddetta Piramide di Cambridge (una sorta di 2-3-5), lo schema fondamentale inventato probabilmente dalla squadra del celebre college e poi praticato in tutta la Gran Bretagna e nel resto del globo: il primo embrione dal quale verrà a originarsi l’intera storia del calcio moderno. I giocatori sono suddivisi nelle tre linee fondamentali: i due difensori (terzini) non hanno compiti marcatura, ma devono solo preoccuparsi di spazzare tutto quanto passa per l’area di rigore; a centrocampo i mediani laterali marcano le ali avversarie, mentre il centromediano costruisce gioco e toglie fiato alla punta nemica; in attacco, infine, il centravanti ha il compito di finalizzare l’azione, accompagnato dalle ali (gli attaccanti più esterni) e dalle due mezzeali.

Champman, nel suo tentativo di riforma, non può dunque che iniziare da qui la sua ricerca. Ad abbassarsi, secondo il nuovo progetto, sarà il centromediano, rifornimento decisivo per la linea dei difensori: il suo ruolo sarà quello di marcare il centravanti, lasciando ai due terzini il compito di giocare sulle ali avversarie. Il centrocampo si spezza in due linee ravvicinate, andando a bilanciare esigenze di protezione e richiesta di costruzione: tra le due mezzeali, leggermente arretrate rispetto alla Piramide, a una delle due si richiederà prevalentemente una funzione di corsa e contenimento, mentre l’altra (generalmente quella sinistra) dovrà dimostrare creatività e invenzione. In attacco, infine, le ali saranno determinanti nella manovra offensiva, ma con la capacità di ripiegare e di spaziare per tutta la fascia. Ed ecco così che, da una brillante intuizione autunnale, nasce il rivoluzionario e vincente Sistema (fonte principale: M. Sconcerti, Storia delle idee del calcio, da pag. 23).

Chapman inizialmente verrà criticato, il suo calcio apparirà in fondo meno spettacolare rispetto a quello preistorico, ma nel tempo i frutti verranno raccolti e non saranno pochi: nel 1931 l’Arsenal vince la FA CUP, e a seguire arrivano due campionati consecutivi, lanciando così definitivamente i Gunners nella storia del calcio. Come si è visto, tutto parte da un’insopprimibile richiesta di equilibrio: i goal vanno realizzati, è chiaro, ma riuscire a non subirne è il motore della ricostruzione. Il football è originariamente passione e scintille, è vero, ma l’ordine difensivo è la forma della materia altrimenti grezza, il principio razionale in grado di limitare caos e imbarcate indecenti.

Il Metodo di Pozzo

Se il Sistema segna una spartiacque decisivo nella storia del nostro sport, il Metodo è la sua più celebre alternativa. Ad idearlo è Vittorio Pozzo, commissario tecnico della gloriosa Nazionale italiana degli anni ‘30; a ripensarlo è Meisl, il tecnico del Wunderteam austriaco.

Allenatore dell’Italia già nel 1912, e tenente degli Alpini durante la prima guerra mondiale, Pozzo si dimostra una patriota fedele e in fondo un buon amico del fascismo; nel 1929 viene scelto dalla Federcalcio (presieduta da Leonardo Arpinati) per la terza volta come CT, aprendo così le porte alla gloria ventura.

Vittorio Pozzo è di fatto un lavoratore instancabile e un conservatore; dalla borghesia piemontese ha appreso una certa industriosità e anche una dose discreta di conformismo, mentre dalla trincea ha assorbito lo spirito della fatica e dell’adattamento. Anche il nostro allenatore, così come Chapman, non può non partire tatticamente dalla Piramide di Cambridge, provando ad adattarla alle esigenze del calcio moderno e del nostro popolo. Per Brera, come è risaputo, il football ben si adegua alla storia delle nazioni e alle componenti dei suoi principali attori: gli italiani si discostano decisamente dall’atletismo nordico, e anche il gioco deve essere sviluppato in questa direzione. Ed è così che, rispetto al più deciso e convinto riformismo anglosassone, le novità tattiche di Pozzo sono in fondo meno radicali, ma comunque rilevanti. Davanti al portiere, i difensori restano due e con compiti differenti: uno è sostanzialmente libero da compiti di marcatura, andando a mettere pezze e lanciando lungo, mentre il secondo gioca sul centravanti avversario. La linea centrale è composta dai due mediani larghi in marcatura sulle ali, mentre il centromediano (che verrà chiamato d’ora in poi centromediano metodista) acquista un ruolo determinante: se da un lato, infatti, il fulcro del gioco passa dai suoi piedi, dall’altro, arretrando di qualche metro, egli diviene il primo difensore in fase di contenimento, imbottendo la retroguardia e spesso spostandosi nella zona del centravanti, liberando così anche il secondo terzino. Alle due mezzeali, poi, che di frequente vanno ad abbassarsi sulla linea degli altri centrocampisti, è richiesto un importante lavoro in copertura (M. Sconcerti, Storia delle idee del calcio, da pag. 37).

Nella sostanza, se il Sistema prevede un gioco maggiormente costruito e fluido, nel Metodo i reparti sono più distanziati e il lanci in profondità per le ali (sostanzialmente più libere nei movimenti) divengono un’arma essenziale. Nel lasciare un difensore libero da compiti di marcatura, poi, lo schema ideato da Pozzo ambisce a gestire con più efficacia e intelligenza le risorse atletiche, conservando una superiorità numerica in fase difensiva e non affidandosi unicamente a 1 contro 1 forse troppo dispendiosi per i football nostrano. Ed è così che vengono gettate le basi per quello che sarà il modello del cosiddetto calcio all’italiana: schierandosi con compattezza davanti al portiere, gli undici di Pozzo (e di chi ne imiterà l’impostazione) mirano a recuperare in fretta il pallone, per poi rilanciarlo in verticale in direzione delle ali che, con estro e concretezza, possono rifornire con eleganza il centravanti, o concludere esse stesse. È nato, insomma, il contropiede ma per giungere al glorioso catenaccio c’è un passaggio fondamentale, che ancora deve essere percorso.

Rappan e il verrou

Nato a Vienna a inizio Novecento, Karl Rappan si nutre di calcio austriaco, portando però in gestazione qualcosa d’altro. Sulle rive del Danubio, il football negli anni ‘30 conserva lo splendore di un Impero ormai in frantumi, proponendo bellezza e facendo scuola nel globo intero. L’Ungheria, fin dal 1902, ha diritto a una Nazionale di calcio propria, in virtù dell’Augesleich, il compromesso voluto dall’imperatore Francesco Giuseppe nel 1867, e che sanciva la parità tra il territorio austriaco e quello ungherese all’interno dell’impero (che, da quel momento in poi, verrà denominato austro-ungarico, e non più soltanto austriaco). Nel corso degli anni ‘20, gli ungheresi ancora faticano a ritagliarsi un posto tra i primi al mondo, ma nel decennio successivo vanno incontro a un’evidente crescita, culminata proprio nella finale conquistata in Francia nel’38 (e persa proprio contro gli Azzurri).

È l’Austria, però, a imporsi con determinazione e qualità durante la quarta decade del Novecento. Sotto la guida di Meisl, gli austriaci propongono una versione più fluida e spettacolare del Metodo, con un gioco basato sul palleggio e su una costruzione orchestrale della manovra. Il Wunderteam (così è ancora ricordata quella formazione leggendaria)  pratica un calcio a tratti onirico, ma in fondo non così redditizio: alla Coppa del Mondo del ‘34, gli austriaci verranno eliminati in semifinale dall’Italia di Pozzo, mentre nel ‘38, come si è accennato, verranno assorbiti dalla Germania nazista, con una conclusione che già conosciamo.

Rappan, dunque, respira un calcio nobile fin dalla giovinezza, e anche lo pratica da difensore con discreto successo. Come per gli altri protagonisti di questa storia, però, anche in lui il pensiero viaggia con maggiore rapidità dei piedi, e la storia saprà dargli ragione. Durante una partita giocata a Zurigo con la maglia del Rapid e contro il Grasshopers, Karl Rappan nota qualcosa di insolito: rispetto alle abitudini austriache, gli svizzeri proponevano un calcio accorto e ben compatto nel reparto arretrato, con l’ambizione di colmare lacune tecniche e carenza di fuoriclasse. Rappan assorbe l’insegnamento, e molto presto saprà farne tesoro.

Rappan si trasferisce in Svizzera nel 1932, andando ad allenare il Servette (in realtà vi giocava già da un anno), mettendo in campo nuove e fruttuose idee. In particolare, nella volontà di sopperire a un football certamente molto lontano dagli splendori austriaci, il tecnico arretra due mediani in difesa, formando così una linea a quattro: i difensori più esterni si occupano delle ali, uno dei centrali toglie fiato al centravanti, mentre l’alto si comporta sostanzialmente da libero. Come per Pozzo, dunque, anche per Rappan il cambiamento parte dalla difesa: le linee si restringono, il gioco si converte nel contro-gioco, la fluidità della manovra in ripartenze fulminee ed efficaci. Nasce così definitivamente il verrou (l’equivalente italiano del catenaccio), ed è l’approdo nell’orizzonte del football di una filosofia nuova, destinata a colorare anche la nostra storia. Il difensivismo proposto da Rappan ha origine dalla coscienza del limite: la consapevolezza della povertà diviene la molla propulsiva di una ricerca che sa essere conservativa, ma anche autenticamente innovativa. Il catenaccio è il frutto di un realismo non meramente cinico, ma anzi legato alla lettura intelligente del contesto, a quel dinamismo che, al di là di freddi dogmi e verità da scrivania, è il cuore pulsante di storie, culture e ambienti.

L’idea di Rappan porterà risultati e trofei: dopo gli inizi più che positivi al Servette, alla guida del Grasshopers arriveranno quattro campionati e ben sei coppe nazionali, con il posto da commissario tecnico guadagnato senza contestazioni. La vittoria contro la Germania nel’38, dalla quale siamo partiti, è una tappa essenziale una storia comunque vincente e che merita di essere ricordata. Rappan allenerà la Nazionale dal ‘42 al ‘49, per poi guidarla ai mondiali casalinghi del 1954, incrociando sulla sua strada, e per nostra sfortuna, anche una Nazionale italiana certamente malconcia (ne abbiamo parlato qui); Rappan riuscirà a qualificare la selezione elvetica anche alla Coppa del mondo del ‘62 in Cile, entrando a pieno titolo nel tempio del calcio rossocrociato (e non solo).

Oltre Rappan: l’Italia e il catenaccio

L’idea di Rappan avrà uno sviluppo parallelo e indipendente all’interno della tradizione italiana. Il catenaccio si impone, a partire dagli anni ‘40, come antidoto più o meno efficace allo strapotere del Grande Torino e alla sua applicazione del Sistema. Tra gli ideatori della versione nostrana del verrou non possiamo non menzionare Gipo Viani e la sua Salernitana, oltre alla miracolosa Triestina di Nereo Rocco. L’innovazione, rispetto allo schema svizzero, è semplice, ma anche profonda: il quarto difensore, che nella proposta di Rappan giocava allineato agli altri, ora si trova posizionato tra il portiere e il reparto arretrato, libero da qualsiasi compito di marcatura, e con il compito di spazzare palloni sporchi e rilanciare l’azione. Il cerchio si è ora concluso, e andrà a caratterizzare la storia calcistica del nostro Paese: con il nuovo modulo l’Inter di Foni vincerà il suo primo scudetto del dopoguerra, generando sconcerto e sdegno per la carenza di bellezza e spettacolo (ne abbiamo parlato qui). L’Inter di Herrera e il Milan di Rocco conquisteranno poi l’Europa e il mondo, entrando di diritto nella leggenda del calcio. Tutto è partito, chiaramente, dal terreno preparato da Vittorio Pozzo, e dalla sua riforma in una prospettiva difensiva del football; eppure, una parte di questa storia ha il suo inizio tra le Alpi, sotto la direzione di Karl Rappan, in uno scambio fitto di idee, uomini e progetti, che abbiamo provato a tracciare.