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Il campionato 2020-2021 si è concluso, andando a confermare un antico e sacro adagio: in serie A vince la difesa. L’Inter scudettata di Antonio Conte non verrà certo ricordata per un gioco brioso e spumeggiante, ma resterà nell’immaginario comune per la sua praticità, solidità e spirito da battaglia. La critica si è trovata non raramente a storcere il naso, ritrovando, forse, tra le rapide folate in campo aperto dei nerazzurri, le scorie di un passato tanto elogiato quanto bistrattato: quello della concretezza un po’ cinica e operaia, poco amica di bollicine e fronzoli. Nulla di nuovo, in fondo, ma anzi di ben radicato nella storia del calcio italiano e presente anche in un’antica vicenda nerazzurra: la conquista del primo scudetto del dopoguerra.

L’INTER NEL DOPOGUERRA

L’Italia sopravvissuta alla seconda guerra mondiale è un Paese da ricostruire nello spirito e nell’iniziativa; mentre nel dibattito politico viene a imporsi il decennale conflitto tra Dc e Pc, con molte famiglie italiane che gradualmente iniziano ad assaporare la resurrezione del boom economico, il mondo calcistico vive l’epopea gloriosa ed effimera del Grande Torino. L’Inter, a partire dal 1942, si trova sotto la presidenza di Masseroni, industriale della gomma, e dal 1945 può finalmente tornare a fare sfoggio del suo nome di battesimo: non più Ambrosiana Inter, denominazione scelta dal regime per evitare facili fraintendimenti ideologici, ma F.C. Internazionale. L’ultimo scudetto in bacheca è quello del 1940, vinto con un Meazza ormai a fine carriera e indisponibile sostanzialmente per tutta la stagione a causa della sindrome da“piede gelato”, e un Ferrari utilizzato con il contagocce: era la la conclusione di un’epoca, quella dei gloriosi (almeno per il calcio) anni ‘30. A inizio della stagione ‘46-’47 in panchina siede Carcano, grande artefice dei cinque scudetti consecutivi juventini degli anni ‘30; l’annata, però, non è tra le più fortunate, così che presto si arriva al cambio, con l’idolo Meazza pronto a traghettare i nerazzurri verso lidi sufficientemente sicuri. La stagione successiva è ancora più tormentata: Masseroni sceglie di ripartire con il Pepìn, per poi chiamare nuovamente Carcano per alcune giornate, e concludendo infine la giostra con Astley, tecnico gallese. L’Inter chiuderà al dodicesimo posto. Nell’estate del ‘48 il presidente conferma il tecnico britannico, con l’auspicio di poter finalmente spodestare dal trono l’invincibile Torino. Il mercato è sontuoso: dall’Alessandria viene acquistato Armano, ala offensiva di eccellenti potenzialità, il “Fornaretto” Amedeo Amadei, grande centravanti della Roma scudettata del ‘42, e Istvàn (chiamato anche Stefano) Nyers, attaccante di origine francese, naturalizzato ungherese. Tra gli attaccanti, poi, ormai da alcuni anni, si distingue in nerazzurro Benito Lorenzi; soprannominato “Veleno”, a causa di un caratteraccio da toscano testardo, diretto e genuino, il centravanti è la nuova bandiera della squadra meneghina. Al suo esordio in serie A con l’Inter contro l’Alessandria, nel 1947, la giovane matricola non aveva tardato a farsi espellere; è un episodio emblematico per una carriera calcistica vissuta tra la provocazione, l’agonismo più esasperato, ma anche una battuta sempre acuta, molta generosità e soprattutto fiuto del goal.

L’ESTENUANTE RICERCA DI UNA GUIDA VINCENTE

Nella stagione 1948-1949, l’Inter di Lorenzi-Nyers-Armano-Amadei sa mettere in campo un calcio divertente e offensivo; la squadra conclude con il migliore attacco del torneo (ben 85 reti segnate), ma il campionato viene vinto dal Grande Torino, ormai all’epilogo della sua leggenda. Il 4 maggio del 1949, infatti, la mitica squadra costruita da Ferruccio Novo incontra il proprio tragico destino; l’Inter, seconda in classifica (dietro ai granata), avalla la sacrosanta decisione della FIGC di assegnare  il titolo ai rivali, concludendo tra le lacrime e lo sconcerto una stagione che aveva lasciato intravedere la possibilità di un riscatto. Il secondo gradino del podio non è però sufficiente a placare l’impazienza societaria; anche Astely viene congedato senza troppi rimpianti, e nella stagione 1949-1950 sulla panchina siederà Mariano Tansini, affiancato dal direttore tecnico Giulio Cappelli. Alla rosa già talentuosa si aggiunge Wilkes, fuoriclasse olandese, mezzala geniale e discontinua, fantasista leggero e un tantino svogliato. Il nuovo acquisto incarna perfettamente lo spirito di una squadra funambolica e sorniona, allegra, ma poco disciplinata; i goal piovono a raffica, a San Siro ci si entusiasma tra dribbling fulminei e guizzi da antologia, ma la pagnotta ben cotta tarda ad arrivare. Il 6 novembre del ‘49 l’Inter conosce una delle domeniche più folli della sua folle storia: il derby contro il Milan termina con una vittoria per 6-5, dopo che i nerazzurri si erano trovati in svantaggio per 4-1. Squadra affascinante, ma volubile ed emotiva, l’Inter chiude al terzo posto l’ennesimo campionato deludente: ci si diverte assai, ma poi si perde, e così l’allegria sfuma in fretta. Nella ricerca sempre più estenuante e logorante di una guida vincente, in panchina si tenta ora con Olivieri. Masseroni, ancora convinto di dover cercare il trionfo per la via dello spettacolo, sceglie di rinforzare un arsenale offensivo già devastante: Amadei viene ceduto al Napoli, ma a Milano arriva Karl Lennart Skoglund, attaccante svedese di un talento immenso, ma di una fragilità invincibile. Mezz’ala (o ala) dal dribbling imprevedibile ed efficace, tiratore mancino e bevitore incallito nelle notti milanesi, Skoglund va a costituire un quartetto delle meraviglie insieme a Wilkes, Lorenzi e Nyers: la squadra incanta ancor più delle stagioni passate, di goal in campionato ne segna addirittura 107, ma il raccolto stenta.  Vince la Svezia, oro olimpico nel ‘48, castigatrice della nostra nazionale ai Mondiali di calcio in Brasile del ‘50, e ora forza trainante anche in Serie A; meglio, vincono gli svedesi, ma non Skoglund, ed è una beffa. Sul gradino più alto del podio, infatti, dopo 44 anni di digiuno, salgono i cugini rossoneri, trascinati dal trio (tutto svedese) del Gre-No-Li. Il Milan può addirittura permettersi di perdere le ultime due partite, senza che l’Inter riesca ad approfittarne: è secondo posto ad un solo punto dalla vetta. Una delusione cocente. Non meglio vanno le cose nella stagione successiva, con i nerazzurri discontinui, che concludono in terza posizione, a causa anche di un apporto insufficiente delle punte di diamante della squadra (in particolare, Skoglund e Wilkes).

ARRIVA ALFREDO FONI

È il momento della svolta: Olivieri viene ringraziato, da buona abitudine esonerato, e al suo posto siederà in panchina Alfredo Foni. Ex grande terzino della Juventus e della Nazionale, il nuovo tecnico nerazzurro porta con sé, anche da allenatore, lo spirito della trincea in area di rigore, il gusto per la lotta e le giocate sporche, ma vincenti. E’ un netto cambio di paradigma rispetto alle vicende milanesi delle annate precedenti, ben visibile anche dalle insolite scelte di mercato: il giocoliere Wilkes viene ceduto, lasciando il posto a Neri, Nesti e Mazza. Si tratta di mediani da fatica e pedate, gregari molto fisici e poco tecnici. Tra i tre, Mazza è quello che più si avvicina a un centrocampista moderno: molto abile nel recuperare il pallone in fase di copertura, sa rilanciare l’azione e non raramente si affaccia in area avversaria, non essendo privo neanche di istinto per il goal.

Foni intende rovesciare l’anima umorale e capricciosa dell’Inter più recente, e per farlo occorre partire da solide fondamenta. Blason, acquistato come terzino d’area con compiti di marcatura, viene arretrato a battitore libero; alle spalle di Giovannini e Giacomazzi, difensori ruvidi e arcigni, il friulano tanto caro a Nereo Rocco (lanciato nella miracolosa Triestina di fine anni ‘40, ritroverà il “Paron” a Padova), avrà il compito di intercettare gli ultimi palloni in gioco e lanciare letali contropiedi. In porta l’Inter ha Giorgio Ghezzi; soprannominato “kamikaze” per le sue uscite coraggiose o quasi temerarie, il numero uno nerazzurro sarà il primo giocatore nell’impostare le contro-offensive dei compagni. Grande lavoro è quello richiesto ad Armano: all’instancabile ala, con una propensione spiccatamente offensiva, spetterà la missione di coprire l’intera fascia, ripiegando velocemente in difesa, a supporto delle ultime linee. E’ la prima “ala tornante del calcio italiano”: un qualcosa di non troppo lontano dalla concezione contemporanea di terzino. Con i tre nuovi acquisti già citati a completare l’area mediana del campo, l’Inter di Foni, ben imbottita di muscoli e agonismo, potrà lasciare i tre tenori offensivi liberi nei movimenti e nell’espressione del gioco: il centravanti Lorenzi, le ali Skoglund e Nyers rappresentano l’eredità di una squadra carnevalesca e fumosa, ora però inseriti in un un quadro ben più rigoroso e ordinato. Istvàn è nomade nello spirito e nel sangue (i suoi genitori avevano lasciato l’Ungheria trasferendosi in Francia in cerca di fortuna, per poi tornare anni dopo in patria); è un’ala dal talento sconfinato, un gran tiro e un incredibile uomo-assist (le sue rimesse laterali sono simili a calci d’angolo!). Anima indisciplinata e ribelle, con una passione per il gioco d’azzardo e i tabarin, Nyers a inizio stagione minaccia la fuga per tornare sulle terre del Danubio a lavorare “come contadino”, prima di rivelarsi elemento insostituibile e principale goleador della squadra.

LA NUOVA INTER: CINICA E VINCENTE

La nuova Inter inizia il campionato soffrendo e battagliando in ogni campo; non è bella, talvolta addirittura viene fischiata e duramente criticata, ma è decisamente cinica e vincente. Quasi sempre i nerazzurri lasciano senza troppe cortesie il pallino del gioco agli avversari, così da compattarsi nella propria area, e poi ripartire con qualità e velocità. Gianni Brera, grande estimatore di Foni e soprattutto del buon catenaccio, sosteneva che per lo spirito e per il fisico italico fosse assai più conveniente e intelligente adattarsi a un calcio speculativo, pratico e poco spettacolare: attaccare in campo aperto, dopo minuti di attesa e lotta, poteva essere il buon antidoto ad anni di digiuno e penurie.

Il tecnico nerazzurro fa sua la lezione del grande critico lombardo, riportando così lo scudetto alla Beneamata; l’Inter, concludendo il girone d’andata con sei punti sui cugini rossoneri (quando le vittorie ne valevano due), conosce una flessione nel mese di marzo (la prima sconfitta a febbraio, in casa contro il Torino), ma a tre turni dalla fine del campionato batte il Palermo e torna a laurearsi campione d’Italia davanti alla Juventus. Grande arma della squadra è indubbiamente la difesa, con appena 24 goal subiti (11 in casa). La produzione offensiva è invece sostanzialmente mediocre, con 46 reti segnate (il capocannoniere è Nyers con 15): un bottino decisamente meno impressionante rispetto ai numeri a tre cifre delle stagioni passate. In sintesi, l’Inter ha sacrificato la qualità per la concretezza, la leggerezza per la fatica; poco champagne e voli pindarici, meglio affidarsi al duro lavoro e all’organizzazione. “Santo catenaccio!”, esclamerà anni dopo sempre Brera: brutto sporco e cattivo, forse, ma anche vincente.