Il 16 giugno la nostra Nazionale giocherà contro la Svizzera la seconda partita del girone del campionato europeo. La squadra helvetica è probabilmente l’avversario più ostico in un gruppo comunque abbordabile per la delegazione azzurra; le gambe non tremano troppo nel pensare alla possibile formazione di Petkovic, e la fiducia pare essere doverosa più che lecita. Nonostante ciò, esiste tra le pagine impolverate della nostra storia un episodio assai poco fortunato: si tratta del doppio confronto con i nostri vicini al campionato mondiale (ospitato proprio in Svizzera) del 1954.
LA PRIMA IN TV
E’ il 4 gennaio del 1954: a Milano si gioca Italia-Egitto, valevole per la qualificazione ai mondiali di calcio. In città nevica e tra le strade e i locali si assaporano gli ultimi giorni di festa. Il Natale per non poche famiglie (di certo non per tutte) è probabilmente trascorso tra qualche regalo in più, magari un elettrodomestico nuovo per rendere felici le mogli, nuove “regine della casa”. Le pubblicità promuovono con vigore l’antica, ma ora sempre più giovane, famiglia borghese; la quotidianità sembra più sopportabile, la guerra e le miserie sono un ricordo abbastanza lontano. Certo, c’è aria di guerra fredda, democristiani e comunisti non si amano troppo, Stalin in Russia è morto da meno di un anno, e allora in Italia chissà cosa combinerà Togliatti. Il piano Marshall ha però portato un po’ di nuova linfa vitale; al governo, in perfetto stile italico, cambia tutto senza cambiare mai nulla (e sarà così per molto), il boom economico conosce i suoi primi vagiti, anche il sud tira qualche sospiro di sollievo grazie all’istituzione della Cassa del mezzogiorno (la mafia ringrazierà presto, come Sciascia racconterà magistralmente). C’è poi la televisione: giusto un giorno prima della partita, un presentatore italo-americano di gran fiuto e finta ingenuità aveva condotto la prima puntata (in seguito ad alcune sperimentali) di “Arrivi e partenze”, subito dopo la cerimonia di presentazione delle trasmissioni ufficiali della Rai. Il suo nome è Mike Bongiorno, e ne sentiremo parlare ancora a lungo. Da qualche anno si tiene poi il Festival di Sanremo, appuntamento irrinunciabile per ogni buona famiglia. Quella stagione lo vinceranno Gino Latilla e Giorgio Consolini con la canzone “Tutte le mamme”: un brano tenero, certamente conservatore, con un buon pizzico di retorica e facile sentimentalismo. Insomma, in perfetto stile sanremese. Il cinema, poi, regala soddisfazioni; nel 1955 verrà distribuito il terzo episodio della fortunata e nota saga di Don Camillo e Peppone, un’intelligente e simpatica rappresentazione dell’Italia del dopoguerra (grazie anche alla penna di Guareschi, autore dei romanzi), mentre pochi mesi dopo il nostro incontro Alberto Sordi entrerà nell’immaginario popolare, recitando la sua parte ne “Un americano a Roma”, tra battute indimenticabili e piatti di spaghetti.
Di motivi per non parlare di una partita sinceramente modesta ce ne sono insomma non pochi; eppure, il match tra Italia ed Egitto è in qualche modo un evento storico. Per la prima volta, infatti, una partita integrale della Nazionale verrà trasmessa in televisione, e in molti avranno la possibilità di radunarsi nelle abitazioni dei più fortunati (il televisore è ancora un bene prezioso) per assistere allo spettacolo. In realtà, per essere rigorosi, non è un esordio assoluto per i telespettatori italiani; il 21 ottobre del 1953, infatti, la Rai aveva trasmesso il secondo tempo di una partita amichevole degli azzurri (ci si accontentava di poco), con telecronaca di Carlo Bacarelli e l’eterno Nicolò Carosio, re delle radiocronache durante il regime e principale voce del calcio fino al 1970. Il 13 dicembre del 1953 la Rai aveva poi mandato in onda il secondo tempo di Italia-Cecoslovacchia, partita valevole per la Coppa internazionale: un incontro ufficiale, certo, ma guardato solo per metà e sicuramente meno prestigioso.
Per il resto, la partita è mera cronaca: gli Azzurri schiantano i mediocri egiziani per 5 a 1 dopo il 2 a 1 della partita d’andata; senza affanni, ma forse con qualche illusione di troppo, siamo qualificati ai mondiali svizzeri. Può essere l’occasione per recuperare un filo d’oro apparentemente smarrito da un po’?
LA NAZIONALE NEL DOPOGUERRA
La nazionale italiana nel dopoguerra è una discreta combinazione di mediocrità, diversi buoni giocatori (pochi eccezionali) e nostalgia per un’età dell’oro alle spalle. Nel 1950 l’Italia si reca in Brasile in nave, per disputare il campionato del mondo, forse sovrastimando la propria condizione atletica, o, più probabilmente, per un comprensibile e molto umano timore (un anno prima si era estinto a Superga il Grande Torino). Il viaggio è infinito, i palloni durante gli allenamenti improvvisati cadono in mare, e a sbarcare sulla costa sudamericana è un gruppetto notevolmente bollito, forse un pizzico nauseato, ma con il titolo di campioni del mondo in carica ancora cucito sul petto. Si sa, però, che un’antica medaglia in soffitta non rende invincibili; è il primo mondiale a disputarsi dopo il nostro bis degli anni ‘30, ma nel frattempo è cambiato soltanto il mondo. Forse non ce ne accorgiamo troppo, e in Brasile riteniamo di poter mostrare ancora un abito dignitoso, magari con la possibilità di portare a casa definitivamente la Coppa Rimet (secondo il regolamento sarebbe stata assegnata alla prima nazionale per tre volte vincitrice; ci saremmo poi impegnati molto, si spera, per non lasciare cadere in mare anche quella). La verità, ahimé, è però un’altra. Giochiamo all’esordio contro la Svezia, squadra talentuosa e miniera d’oro per il calcio europeo: perdiamo la partita per 3 a2, senza nemmeno accorgercene siamo eliminati, e le spiagge brasiliane dobbiamo salutarle in fretta.
Con la Svezia abbiamo un conto in sospeso e decidiamo di affrontarla eroicamente l’anno successivo in amichevole: finisce in pareggio, ma un buon punto che non conta in periodi di carestia non si butta via. Il 18 maggio del 1952 incontriamo a Firenze l’Inghilterra, come noi nobile decaduta (in Brasile erano stati addirittura clamorosamente eliminati dagli Stati Uniti), ma sempre convinta (decisamente più di noi) di essere il faro della civiltà (in ultima analisi, anche di quella calcistica). Pareggiamo anche questa volta e non è un incontro da poco: a 39 anni Silvio Piola, leggenda del calcio azzurro, lascia la Nazionale. Se gli inglesi sono in crisi, non è così invece per il calcio ungherese, all’apogeo della sua storia gloriosa e discontinua. Dopo aver impressionato alle Olimpiadi di Helsinki, i magiari avevano depredato l’inespugnabile Wembley con un sonoro 6 a 3, e nel mese di maggio del 1954 vengono invitati all’Olimpico di Roma dalla Federazione italiana, non si sa se più ingenua o presuntuosa: finisce per tre a zero, ovviamente per loro. Forse conviene restare con i piedi ben saldi al suolo.
L’ITALIA IN SVIZZERA
Come si sarà notato, di partite a inizio anni ‘50 la Nazionale non ne vince molte (modesti egiziani a parte). Certo, rispetto ai mondiali brasiliani il vantaggio è enorme: per arrivare in Sud America avevamo attraversato l’oceano, mentre ora è sufficiente valicare le Alpi.
Siamo inseriti nel gruppo dei padroni di casa, e non c’è da fidarsi troppo dello spirito di ospitalità di chi organizza un campionato del mondo; nel 1934 avevamo approfittato noi degli ossequi arbitrali verso gli Azzurri, con vibrante soddisfazione del regime, e ora c’è il rischio che la legge dantesca del contrappasso torni a bussare.
Il tecnico scelto per la spedizione azzurra è Czeizler, allenatore ungherese, artefice dello scudetto del Milan svedese, e ora desideroso di mettere la sua firma anche sulla bacheca azzurra. L’onere e onore che gli spetta è il tormento di qualsiasi commissario tecnico (specialmente quelli dello Stivale): le convocazioni. La critica italiana (quella esperta e quella improvvisata) è divisa tra la predilezione per il blocco della Fiorentina o quello dell’Inter, per due volte consecutive vincitrice dello scudetto; tra consenso e dissenso ben distribuito, il tecnico opta infine per il serbatoio nerazzurro, lasciando Firenze traboccare di malinconia. In tutta probabilità, la scelta non è stata autonoma; sembra non essere mancato, infatti, lo zampino del buon Valentini, dirigente federale incaricato di seguire la Nazionale, soprannominato “Richelieu”, non certo perché in odore di santità. Si racconta che il nostro cardinale (in futuro direttore sportivo proprio della Beneamata, dopo un’esperienza alla Lazio) si sia ben giostrato tra le molteplici pressioni, facendo valere la furbizia da politico navigato e lo spirito da “uomo di corridoio”.
Giochiamo la partita d’esordio contro la Svizzera, con la speranza di poter essere bravi corsari. La formazione messa in campo da Czeizler è di buon livello, anche se discretamente disordinata. Tra i pali, non può mancare Giorgio Ghezzi, il portiere “kamikaze” dell’Inter, del quale si è parlato in altre circostanze; a completare il reparto arretrato (tutto nerazzurro), Giacomazzi e Vincenzi, difensori generosi, di buon fisico e raramente arrendevoli; Neri e Nesti (anch’essi provenienti dall’Inter) completano la linea mediana e di contenimento insieme al rossonero Tognon. Giocatore di muscoli, cuore e polmoni nel Milan stellare del Gre-No-Li, il centromediano è un ragazzo di buona sostanza, dinamico e roccioso, un gregario essenziale nel dare equilibrio in campo. Infine, il reparto offensivo, dove la qualità indubbiamente esiste, ma faticosamente convive. Muccinelli è un’ala di classe, dribbling, leggerezza e occhio per la porta: uno di quei calciatori in grado di animare le folle degli stadi italiani. Soprannominato da Gianni Brera “l’omino dovunque”, per la sua duttilità e onnipresenza, il ligure (è nato a Lugo, in provincia di Savona) alla Juventus forma un tridente assai spettacolare con Hansen e Boniperti, e ora sogna di poter trascinare anche gli Azzurri. Il futuro presidente dei bianconeri è in Nazionale una mezzala dal talento sopraffino: attaccante universale e moderno, centravanti o anche regista, Boniperti può disporre di un armamentario impareggiabile, senza però riuscire, poveri noi, a farne tesoro. Secondo le disposizioni del maestro ungherese, Benito Lorenzi agirà da ala sinistra; il “Veleno” dell’Inter, abituato in campionato a raccogliere gli assist di Nyers e Skoglund, si trova qui a doversi muovere abbastanza lontano dalla porta, e i risultati (come si sarà intuito) non saranno dei migliori. A completare l’attacco, una spruzzata di giallorosso: Egisto Pandolfini, calciatore di ottima tecnica ma non eccelsa rapidità, gioca sostanzialmente da mezzala destra, mentre Galli, il goleador della Roma, è il centravanti della squadra.
La comitiva è di buon livello, ma le cose vanno male: la Svizzera è una formazione solida, compatta, ben formata dal catenaccio di Rappan degli anni ‘30. Gli Azzurri faticano tra le linee, diverse giocatori si trovano lontani dai ruoli abituali e la costruzione degli spazi risulta difficoltosa. La squadra helvetica passa in vantaggio con Ballaman, poi sarà Boniperti a pareggiare in conclusione del primo tempo. In realtà, di goal ne segna uno anche Lorenzi, ma l’arbitro brasiliano Viola annulla per un fuorigioco assolutamente inesistente (classico trattamento per gli ospiti, insomma), scatenando la furia di “Veleno” (cosa non insolita, a essere sinceri) a fine partita. Al minuto ‘78, poi, si verifica il disastro: su un infortunio di Giacomazzi, fino a quel momento, stando alle cronache, quasi impeccabile, Hugi segna il goal della vittoria degli Svizzeri. È il 2 a 1 per loro: la faccenda non è delle migliori.
I giochi, però, non sono ancora chiusi. Nel secondo match affrontiamo il non irresistibile Belgio, che ha pareggiato per 4 a 4 con l’Inghilterra; gli inglesi, si sa, non sono nel loro periodo d’oro, e in effetti la squadra belga si rivela davvero modesta. Vinciamo 4 a 1 (le marcature sono di Pandolfini, Galli, Frigani e Lorenzi) e ci illudiamo che tutto possa tornare al verso giusto.
A causa di un regolamento abbastanza astruso e al limite della comprensibilità, la terza partita è ancora contro gli svizzeri. La viglia è turbolenta: su quasi imposizione di Valentini, Czeizler, che non è un “cuor di leone”, accetta di mettere in campo un undici ben rimaneggiato rispetto a quello degli incontri precedenti. Tra i pali, tra lo stupore generale, non c’è più Ghezzi, ma Viola della Juventus; in difesa Magnini sostituisce Vincenzi (accantonato già dopo la partita d’esordio) accanto a Giacomazzi, mentre in mediana Mari (bianconero) prende il posto di Neri. La prima linea è rivoluzionata; Boniperti è infortunato e interno sinistro gioca Segato; Lorenzi torna a fare il centravanti, mandando Galli in panchina, mentre Frignani (già in campo contro il Belgio) è l’ala sinistra. A completare il reparto, la conferma di Pandolfini e il ritorno a destra di Muccinelli, dopo il riposo nel secondo incontro.
La partita si gioca a Basilea ed è una disfatta: finisce ancora 4 a1, come contro il Belgio, ma questa volta a parte invertite. Non c’è neppure l’alibi del pessimo arbitraggio a darci conforto: in campo domina il disordine tattico e gli svizzeri si mostrano decisamente superiori. Usciamo così mestamente dal torneo: è un punto basso, e occorrerà parecchio tempo prima di rivedere la luce. Una gita assai amara, insomma: auguriamo a Mancini e i suoi di poterci regalare ricordi migliori.