Benjamin Urrea, detto 'Garabato'

Se dovessimo indicare la parte del mondo in cui il calcio rappresenta una vera e propria ragione di vita, questa sarebbe sicuramente il Sud America. Dai sentitissimi derby argentini al Joga Bonito brasiliano, passando per i rituali scaramantici tipici di ogni paese, l’America Latina rappresenta per alcuni versi il cuore pulsante del football.

Se Brasile e Argentina la fanno da padrone a livello tecnico e di prestigio, molte altre sono le realtà in cui si vive di calcio. Tra queste anche la Colombia, terra meravigliosa troppe volte falcidiata da eventi di criminalità legati soprattutto al narcotraffico. Millonarios, Atletico Nacional e América de Cali: queste le squadre più blasonate nella terra dei Cafeteros.

DAL DILETTANTISMO AL PROFESSIONISMO

Il calcio colombiano cominciò a svilupparsi a livello professionistico negli anni ’40 del secolo scorso. Iniziò a prendere forma il campionato e diverse squadre superarono la soglia del dilettantismo. Tra queste la Sociedad Anónima Deportiva América, meglio nota come América de Cali. Nel 1948, a seguito dell’assemblea dei soci, i Diavoli Rossi divennero società professionistica. La scelta venne presa a maggioranza ma tra i contrari figurava il nome di Benjamin Urrea, medico ed ex calciatore, soprannominato ‘Garabato’ (il corrispettivo del nostro ‘Pennellone’, per indicare una persona magra e molto alta).

Il dissenso di Urrea venne preso con scherno da parte degli altri soci che accusarono l’ex giocatore di aver votato in malafede, solo per andare contro il club che, si vociferava, doveva saldargli alcune vecchie pendenze. ‘Garabato’ andò su tutte le furie, si alzò con rabbia dal tavolo e disse: “Fate dell’America quello che volete, ma giuro su Dio che non vincerà mai nulla!”. Dopo la riunione, il medico si chiuse in un bar malfamato, bevve a oltranza e inscenò un rituale scaramantico con la bottiglia maledendo uno ad uno dirigenti e giocatori.

LA LIBERAZIONE DAL MALEFICIO

La formazione caleña partì nel mondo dei professionisti con tantissime aspettative ma ben presto iniziarono ad arrivare le delusioni. Club di città minori riuscivano ad arrivare molto più in alto della compagine di Cali, la quale anno dopo anno continuava a rimanere a secco di risultati con una bacheca perennemente vuota. Qualcuno si ricordò della maledizione di ‘Garabato’ e la superstizione prese il sopravvento. Fino al 1979 quando, dopo tre decenni di zero assoluto, la dirigenza decise di dare una svolta. Oltre ad acquistare giocatori di valore, la presidenza fece celebrare, nel bel mezzo dello stadio, una messa alla presenza dello stesso Urrea, con tanto di esorcismo finale. Al termine della stagione l’America de Cali vinse il suo primo titolo nazionale: il rito scaramantico aveva funzionato.

Negli anni ’80 i rossi di Cali divennero assoluti protagonisti, conquistando ben cinque titoli consecutivi. Merito della stregoneria? Non proprio. In quegli anni il narcotraffico in Colombia viveva uno dei suoi periodi più proficui. Tanti soldi da far girare e da investire anche nello sport. Alcune squadre, tra le quali proprio l’América, beneficiarono degli introiti illeciti e iniziarono a farsi strada nel mondo del calcio. Non solo il denaro sporco. Ai successi dei Diavoli Rossi contribuì anche Gabriel Ochoa Uribe, uno dei più grandi allenatori colombiani del periodo.

LA CORSA ALLA LIBERTADORES

Sfatata la maledizione dei titoli nazionali, il nuovo obiettivo divenne quello di affermarsi anche in campo internazionale attraverso la conquista della Copa Libertadores. Nel 1985 la prima grande occasione: la finale contro l’Argentinos Juniors. Le due squadre si spartirono andata e ritorno con il risultato di 1-0. La regola dell’epoca prevedeva che, in caso di parità nelle due gare, si giocasse una terza partita in campo neutro. Dopo l’1-1 fino ai tempi supplementari, la sfida venne decisa ai rigori. L’ultimo tiro dal dischetto fu calciato frettolosamente da Anthony de Avila, con il portiere dell’Argentinos Juniors che parò agevolmente regalando il titolo ai suoi.

L’anno successivo l’América de Cali ci riprovò. Stavolta in finale non ci fu storia: troppo alto il tasso tecnico degli avversari, gli argentini del River Plate. I Diavoli rossi persero entrambe le gare ma ormai la conquista della Libertadores era diventata un’ossessione: l’obiettivo non sarebbe dovuto fallire nella stagione seguente. E in effetti il 1988 sembrava poter essere l’anno buono. L’América disputò una grande Libertadores e arrivò per la terza volta di fila in finale. A sfidarla gli uruguagi del Peñarol, formazione di valore ma assolutamente alla portata. L’andata in Colombia terminò 2-0 per i padroni di casa, mentre il ritorno in Uruguay finì 2-1 per gli avversari. Somma dei gol e vittoria dei rossi? Negativo. All’epoca vigeva la regola che in caso di parità di vittorie, sarebbe stata necessaria una terza sfida in campo neutro e solo in caso di parità dopo i supplementari si sarebbe contata la differenza reti. A dieci secondi dal fischio finale la beffa delle beffe: Diego Aguirre entrò in area dell’América e con un potente sinistro gonfiò la rete. Anche stavolta i colombiani furono costretti a dire addio alla Libertadores.

ANCORA IL RIVER PLATE

La storia della maledizione di ‘Garabato’ tornava a farsi insistente, tanto che secondo molti tifosi questa non era scomparsa ma aveva solo preso una forma diversa. Negli anni successivi la compagine di Cali continuò a far bene in campionato ma per rivivere una finale della Coppa Campioni sudamericana si attesero altri nove anni. Riecco il River Plate ma stavolta l’esperienza maturata nel tempo aveva assottigliato il divario tra i due club, tanto che all’andata i colombiani si imposero in casa per 1-0. Il ritorno, al Monumental di Buenos Aires, appariva alla portata. Hernàn Crespo pareggiò i conti ma la partita non sembrava assolutamente finita, con grandi occasioni da ambo le parti. Nella ripresa l’ombra di ‘Garabato’ fece nuovamente capolino: appoggio sbagliato di Oscar Cordoba, portiere dei colombiani, sui piedi di Escudero; palla in area per Crespo che di testa mise a segno la sua doppietta personale. La Libertadores prese la via dell’Argentina, l’América de Calì ottenne il poco edificante record di sconfitte in finale.

Mai nessuno, nella storia della competizione sudamericana, è riuscito a perdere quattro finali su quattro disputate. Benjamin Urrea, detto ‘Garabato’, nel 2008 ci ha lasciati ma la sua maledizione continua a far rumore nelle menti dei tifosi di Cali.

Di Dante Chichiarelli

Nato a Roma, il 26 agosto del 1984, inizia ad appassionarsi al calcio a non ancora 6 anni, durante i Mondiali di Italia '90, quelli delle Notti Magiche e di Totò Schillaci. L'amore per questo sport è nel DNA della famiglia: il suo bisnonno, Silvio Blasetti, mosse i suoi primi passi nel calcio nei primi decenni del '900 con la maglia della Lazio. Oltre a questo affianca un'altra grande passione, quella per la scrittura e per il giornalismo. Dopo le scuole, frequenta la facoltà di Scienze della Comunicazione presso "La Sapienza" di Roma e nel 2009, dopo aver collaborato per oltre due anni con "Sportlocale", settimanale sul calcio dilettantistico e giovanile, diventa giornalista pubblicista. Sempre in quegli anni inizia a frequentare il corso di giornalismo sportivo curato da Guido De Angelis e di lì a breve diventerà uno dei redattori della rivista "Lazialità". Nel corso del tempo numerose sono le collaborazioni con periodici on-line e cartacei. Nel 2011, per circa un anno, diventa Direttore Responsabile del mensile "Futuro Giovani Magazine". Da aprile 2020 collabora con la redazione di "Noi Biancocelesti". Ad oggi, nonostante gli impegni lavorativi, continua a coltivare le sue due grandi passioni che lo accompagnano sin dai primi passi della vita.