Raccontare il calcio, trasmettere emozioni ai tifosi, è un’arte. Un’arte che sembra però essersi persa negli ultimi anni, a vantaggio di una comunicazione sportiva, soprattutto calcistica, più veloce e superficiale. Abbiamo avuto il piacere parlare con Riccardo Cucchi, voce storica del noto programma radiofonico Tutto il calcio minuto per minuto, che ci ha spiegato il suo punto di vista sull’argomento, grazie alla sua enorme esperienza.
Cucchi ha fatto emozionare per quasi quarant’anni milioni di tifosi italiani incollati alla radio. Nel suo libro Radiogol, Trentacinque anni di calcio minuto per minuto ha raccolto le principali emozioni che hanno segnato la sua carriera: dalla prima radiocronaca nell’agosto del 1982, Campobasso-Fiorentina di Coppa Italia, quando venne chiamato all’improvviso da Mario Giobbe, a quelle storiche dell’Italia agli Europei e ai Mondiali.
Riccardo Cucchi, buongiorno e grazie per la disponibilità.
È un piacere!
C’è mai stata una situazione, di gioco o di qualsiasi tipo, che non è riuscito a spiegare con le parole, quasi al punto da dire “dovreste vederlo con i vostri occhi”? Oppure si trovano le parole per descrivere ogni cosa?
Questo non mi è mai successo. Sicuramente in alcune situazioni la descrizione è riuscita meglio, altre volte meno. L’addestramento al quale sono stato sottoposto negli anni dai grandi maestri che ho avuto mi ha consentito di essere in condizione di raccontare sempre ciò che accadeva sotto i miei occhi. Quindi no, questa situazione non mi è mai accaduta.
Partiamo dalla fine. 12 febbraio 2017, Inter-Empoli e quello striscione che le ha dedicato la curva interista: “A te il nostro applauso per averci emozionato per davvero, in un mondo finto. Riccardo Cucchi simbolo del nostro calcio”. Cosa ha provato lì per lì? Che effetto le ha fatto ricevere un tributo che solitamente è riservato a un calciatore?
È stato uno dei momenti più belli della mia vita professionale. Avere il riconoscimento di una curva per il tuo lavoro è qualcosa di straordinario. Sappiamo perfettamente quanto siano complicati i rapporti fra i giornalisti e le curve. Sappiamo quanta passione alimenti la curva Nord nerazzurra. In quell’occasione credo che sia stato straordinario l’affetto che mi hanno dimostrato, stimolato forse anche dal fatto che ero stato la voce della finale di Champions League vinta dall’Inter. Nello striscione era infatti riportata la frase con cui avevo commentato il gol di Milito.
Aldilà del riconoscimento personale, per il quale continuerò a ringraziare per sempre i tifosi nerazzurri, in quel momento ho pensato che si trattasse di un riconoscimento al valore della radio, allargato pertanto a tutti i colleghi. Sono convinto che nell’immaginario del tifoso il radiocronista sia sentito più vicino, più leale, in qualche modo meno vittima del grande business mediatico. Raccontiamo in modo più diretto e credo si percepisca l’emozione autentica.
Un’emozione che i tifosi hanno sicuramente percepito ascoltandola…
Perché possa funzionare il rapporto tra radiocronista e tifoso, deve esserci alla base un rapporto di fiducia. L’ascoltatore non ha le immagini, deve quindi potersi fidare di ciò che racconta il radiocronista. Un rapporto che se venisse interrotto danneggerebbe in maniera irrimediabile la radio. Chi ascolta la radio deve potersi fidare e suppongo che questo forte rapporto, consolidato negli anni, sia più forte di quello che possa crearsi con un telecronista.
Come è cambiato il mestiere del cronista ai tempi del Covid? Lei non ha vissuto questa particolare esperienza in prima persona ma ne avrà sicuramente parlato con qualche suo collega.
Per fortuna non l’ho vissuta, ma è stato un momento di grande difficoltà per i nostri colleghi, sia della radio che della televisione. Aldilà della questione della tutela della propria salute e dei rischi, c’è un elemento fondamentale che è venuto meno nel racconto, ovvero l’assenza del pubblico. Parliamo di un fattore importante ovviamente per i calciatori e per il loro stato d’animo, ma si tratta di una colonna sonora fondamentale anche per noi perché è parte stessa del racconto dell’evento sportivo. Raccontare una partita senza il pubblico significa anche non avere più la possibilità di dosare la voce in base al clamore dello stadio. Tutto questo comporta di conseguenza un cambiamento emotivo che a mio avviso danneggia radiocronisti e telecronisti. Il calcio ha bisogno di pubblico, c’è poco da fare, e da questo punto di vista mi auguro che presto si possa tornare allo stadio.
In questi giorni tiene banco la questione legata ai diritti tv. Dazn, Sky, i tanti pacchetti per Serie A e le coppe europee… L’impressione è che si tenga veramente poco conto dei tifosi e della loro voglia di seguire lo sport. Lei che ne pensa?
Ancora mi è poco chiaro dove e come si potranno seguire le partite, se sarà ancora possibile vederle in tv o se dovremo affidarci esclusivamente allo streaming di Dazn. Ma al di là di quest’ultima novità, io credo che il problema centrale sia un altro, ovvero quello del costo. Personalmente ritengo che il calcio abbia avuto grande visibilità e successo in questo secolo di storia per il semplice fatto di avere forti radici popolari. Ho l’impressione che questa radice si stia minando attraverso una sorta di selezione in base alle disponibilità economiche. Sotto i nostri occhi è in atto uno sradicamento della cultura popolare del calcio a favore di un’elite più ricca.
Il calcio costa troppo, in televisione e anche allo stadio. Oggi un biglietto per entrare allo stadio ha un costo troppo elevato e a questo va aggiunto il fatto che è diminuita la capienza di molti stadi, pensiamo a quello della Juventus, il che rende ancora più difficile l’accesso. Capisco che l’industria calcio sia diventata complessa e difficile da gestire, ma vorrei che i dirigenti calcistici, a qualunque livello, non dimenticassero mai che quest’industria non produce automobili ma passione, e la passione va alimentata per non far disamorare i tifosi. I tifosi sono il cuore palpitante di questo sport e sono dell’idea che negli ultimi tempi si sia operato in maniera poco sensibile nei loro confronti, e ciò ha inevitabilmente portato ad un allontanamento.
Ai tempi d’oggi, come si comporta la radio in ambito sportivo? Quale tipo di pubblico cerca? Ha sempre seguito la sua strada o si è adattata in base alla crescita degli altri mezzi comunicativi? È cambiato qualcosa dai primi anni in cui sono comparse la pay tv?
L’evoluzione della radio, dagli albori fino ai giorni d’oggi, ha subito dei cambiamenti, nei confronti del calcio come, più in generale, della società. Inevitabile che ogni epoca abbia avuto i suoi narratori e le sue peculiarità. Ad ogni modo credo che non sia cambiato il ruolo centrale di questo mezzo, come testimoniano anche gli ascolti, sempre molto elevati, in particolare per Radio Rai, ma non solo. Questo perché è difficile immaginare un telespettatore capace di sedersi davanti alla tv il venerdì e rialzarsi il lunedì: ognuno ha i suoi impegni e a quel punto entra in campo il supporto della radio, anche semplicemente in macchina, per rimanere aggiornato su come stanno andando le cose.
Sottolineerei anche la grande capacità di adattamento della radio ai nuovi strumenti di ascolto: c’è la possibilità di tenere la radio con noi per ascoltare il calcio anche quando non ci è possibile vederlo. Questo discorso si riallaccia al precedente. Gli appassionati di calcio sono molto di più degli abbonati a Sky e alle pay tv, questo significa che c’è una bella fascia di popolazione che non può, o non vuole, fruire di un abbonamento televisivo, ma preferisce seguire la propria squadra alla radio, la quale svolge letteralmente un “funzione pubblica”.
Lei ha raccontato di aver rubato molto dai suoi modelli, Ameri e Ciotti. Pensa di esser stato anche lei un modello per gli attuali radiocronisti?
Questo sinceramente non posso dirlo io. Potrò notarlo magari ascoltando i miei giovani colleghi che sono cresciuti con me, per capire se nel loro linguaggio è rimasto qualcosa del mio modo di raccontare il calcio, così come io ho cercato di non smarrire i frutti degli insegnamenti che ho ricevuto. Sono stato sempre convinto che il radiocronista perfetto non sia ancora nato, e che se un giorno dovesse nascere, dal mio punto di vista, dovrebbe essere la sintesi di Enrico Ameri e Sandro Ciotti. Profondamenti diversi l’uno dall’altro, ma capaci insieme di riassumere la figura perfetta del radiocronista. Il ritmo fluido e la naturalezza di Ameri, la ricchezza lessicale e l’ironia di Ciotti. Io ho cercato di fare questo, cioè di assorbire le caratteristiche di ciascuno dei due, cercando comunque di non farmi rimpiangere troppo.
Cosa fa Riccardo Cucchi oggi? Quanto ti manca raccontare il calcio?
No, non mi manca. Non voglio rimanere vittima della nostalgia. La nostalgia è un sentimento pericoloso che può minare la realtà presente. Il mio è stato un passato meraviglioso: quarant’anni bellissimi. Avere la fortuna di trasformare la propria passione in lavoro non è cosa che capita a tutti. Da questo punto di vista mi ritengo un privilegiato. Quella però è una parte della mia vita che si è chiusa e da quattro anni ne è cominciata un’altra. Non ho perso la mia passione per il calcio, anzi continuo a seguirlo con la stessa passione. Non ho più frequentato una tribuna stampa, sono tornato a vedere le partite in mezzo alla gente per riassaporare l’esperienza fatta da ragazzo. Ho scritto due libri: Radiogol e La partita del secolo, ho altri progetti e ne approfitto per coltivare le altre due mie passioni: la lettura e la musica.