Nel 1994 la Colombia vive uno dei periodi più difficili della sua storia. A dicembre del ’93 viene ucciso Pablo Emilio Escobar Gaviria, re incontrastato del narcotraffico per anni. Pablo Escobar era un uomo molto potente, ben voluto dalla maggior parte del popolo colombiano e con diversi contatti anche nel mondo del calcio. Principale finanziatore dell’Atletico Naciònal, club più importante di Medellin, la sua morte scuote tutta la nazione, creando grossi scompigli interni. Ne nasce una lotta fra cartelli per il dominio del narcotraffico con l’ascesa dei Los Pepes (acronimo di Perseguidos por Pablo Escobar), un’organizzazione paramilitare, di cui erano noti i legami con la DEA e la CIA, al servizio del Cartello di Cali.
La Colombia è una vera polveriera ed il mondo del calcio non è esente da ripercussioni. Alla vigilia dei mondiali statunitensi, il figlio di Luis Fernando Herrera, difensore dell’Atletico Naciònal, viene rapito. Il riscatto richiesto dai sequestratori è altissimo, tanto da spingere il calciatore ad uno straziante appello televisivo. Il portiere René Higuita, simbolo della compagine sudamericana, non parteciperà ai mondiali a causa della condanna a 7 anni di carcere per l’intermediazione in un vecchio sequestro di persona. Al suo posto verrà convocato Oscar Cordoba, estremo difensore dell’America di Cali.
La rassegna americana è una vetrina importante per la Colombia che vuole far parlar di sé al mondo non solo per le tragiche vicende nazionali. L’aria però non è delle migliori, i calciatori e tutto lo staff tecnico vivono la vigilia del Mondiale sotto grosse pressioni e ricatti. La partita d’esordio vede i Los Cafeteros giocarsi da favoriti la sfida contro la Romania. La tensione è però palese fra tutti i giocatori e alla fine sono i rumeni ad imporsi per 3-1. Grosse critiche piovono sulla squadra e sul C.T. Maturana, reo di aver dato fiducia a Gabriel Jaime Gomez, centrocampista del Naciònal, nonché fratello del suo vice. Il giorno dopo arriva un chiaro messaggio via fax: “Se gioca Gomez faremo saltare in aria la sua casa e quella del C.T. Maturana”. L’atmosfera è sempre più pesante e alla fine il centrocampista viene rimandato a casa anticipatamente. Non solo. Viene assassinato anche il fratello di Luis Fernando Herrera, colui che aveva già subìto il sequestro del figlio di 3 anni poco tempo prima. A distanza di tanto tempo, qualcuno sostiene che le minacce ai calciatori continuarono anche all’interno dell’hotel, con messaggi minatori sulle tv a circuito chiuso della struttura.
In un clima di terrore, la Colombia scende in campo per la seconda partita sfidando i padroni di casa statunitensi. Il calcio in Nord America è ancora poco conosciuto, la nazionale a stelle e strisce non ha chissà quali aspettative e non è la favorita contro i cugini del Sud. La partita prende però una piega favorevole agli statunitensi che al 34′ passano in vantaggio grazie ad un cross di Harkes deviato involontariamente nella propria rete da Andrés Escobar, difensore di grossa affidabilità dell’Atletico Naciònal, accostato addirittura al Milan nei mesi precedenti. Il calciatore rimane per qualche istante sdraiato sull’erba, forse inconsapevole di aver commesso un errore che gli costerà caro. Nei minuti successivi i padroni di casa raddoppiano ed è inutile nel finale la rete di Valencia. La Colombia, nonostante la vittoria successiva contro la Svizzera, viene estromessa clamorosamente dai mondiali americani.
Il ritorno in patria non è dei più sereni, le autorità consigliano ai giocatori di rimanere nelle proprie abitazioni e non uscire fino a quando la situazione non sarà migliorata. Andrés Escobar, però, è un pesce fuor d’acqua rispetto a certi argomenti. Viene descritto come un ragazzo serio, acculturato, di buona famiglia. Una mosca bianca rispetto al contesto socio-culturale che il suo paese vive in quel momento. La sera del 1′ luglio decide di incontrarsi con degli amici di infanzia in un bar per poi proseguire la serata nella vicina discoteca Padova, dove ad attenderlo ci sono altri amici. Nel locale alcune persone cominciano ad attaccarlo con insulti, gli danno del fallito, del venduto, gli urlano “Maricòn!“, un termine dispregiativo per indicare gli omosessuali. Ma l’accusa più frequente è quella relativa all’autogol contro gli Stati Uniti. “Ci hai fatto perdere tutto, devi pagare!“. Le minacce non rimangono solo verbali e qualcuno cerca il contatto fisico. Ad andarci giù pesantemente sono soprattutto i fratelli Gallòn Henao, narcotrafficanti finanziatori dei Los Pepes. Andrés capisce che la situazione sta prendendo una brutta piega e decide di ritirarsi verso casa.
All’uscita dal locale, precisamente all’interno del parcheggio dove si trova la sua auto, Escobar viene avvicinato da una Toyota Land Cruiser dalla quale si affaccia un uomo che gli dice “Complimenti per l’autogol!” per poi crivellarlo a colpi di mitragliatrice. La camicia rosa si tinge di sangue, il calciatore cade a terra esanime ed inutile si rivelerà la corsa in ospedale. La sua fidanzata Pamela, quella sera rimasta a casa, accorre dal suo compagno ma non riuscirà a dirgli addio. A soli 27 anni Andrés Escobar, ragazzo modello e calciatore di gran talento, muore sotto i colpi della criminalità.
Al suo funerale partecipano oltre 150mila persone. La gente urla tutto il proprio sdegno, la Colombia è un mattatoio a cielo aperto, gli omicidi ormai sono all’ordine del giorno. In un ambiente completamente saturo, parte la caccia all’assassino del giovane difensore. Ma nulla viene fuori per un bel po’ di tempo. Nel 1995, a distanza di un anno dall’accaduto, arriva una confessione: Humberto Munoz Castro, ex bodyguard, si dichiara colpevole dell’omicidio di Andrés Escobar. Nessun legame con i narcotrafficanti, viene condannato a 43 anni di carcere per poi scontarne soltanto 11 ed uscire per buona condotta nel 2005.
Qualcosa non torna, è evidente. Bisogna aspettare il 2018 per far chiarezza sulla situazione. A seguito di indagini su un ingente traffico di stupefacenti, la polizia arresta Juan Santiago Gallòn Henao, uno dei due fratelli con cui Escobar ebbe la lite quella maledetta notte di luglio. Le indagini non si fermano solo allo spaccio di cocaina: gli inquirenti scoprono che la Toyota dalla quale nel 1994 partirono i colpi che uccisero il calciatore era intestata proprio a Henao. Di lì, come un effetto domino, cadono sul tavolo tutte le tessere. Il Cartello di Cali aveva perso grosse somme di denaro nelle scommesse clandestine a causa di quell’autogol. Pedro e Santiago Henao erano riusciti a sfuggire alla legge corrompendo, presumibilmente, un procuratore con diversi milioni di dollari. Dopo 24 anni la luce si è accesa su uno degli avvenimenti più tristi del calcio sudamericano.
Oggi “El Caballero de la cancha” (il Gentiluomo del calcio, come affettuosamente veniva chiamato) avrebbe avuto 53 anni. Nessuno sa come sarebbe continuata la sua carriera da calciatore, cosa avrebbe fatto una volta appesi gli scarpini al chiodo; la sua vita è stata spezzata come un fiore appena sbocciato in primavera. Oggi a lui è dedicata la cittadella sportiva di Belén a Medellin dove sorge anche una statua in suo ricordo. Quella scivolata al Rose Bowl di Los Angeles, quei secondi distesi a terra con lo sconforto negli occhi e tutto quello che ne è conseguito, rimarranno per sempre impressi nella mente di ognuno di noi.
“Hasta pronto, porque la vida no termina aquì” (Andrès Escobar)