Questa sera, martedì 17 luglio, la Nazionale italiana affronterà a Wembley l’Inghilterra, nella finalissima di Euro2020. L’entusiasmo, dopo un anno e mezzo estremamente faticoso per l’intero globo, è ora finalmente alle stelle; avvertiamo tutti il desiderio di riscatto, la fame per un trofeo che è assente ormai in bacheca da troppo tempo. In questo articolo, andremo brevemente a ripercorrere le principali imprese della Nazionale in terra inglese, in particolare (ma non solo) in quella che è stata definita da Pelé “la cattedrale del calcio”: il leggendario stadio londinese.
L’ANTEFATTO: I “LEONI DI HIGHBURY”
Gli inglesi, si sa, non si distinguono per modestia. Alle prime edizioni della Coppa Rimet i sudditi di Sua Maestà, poco inclini a celare il proprio snobismo, avevano scelto aristocraticamente di non partecipare, convinti in fondo che poco avrebbero potuto imparare dalle periferie calcistiche del pianeta (ad essere periferico, come è ovvio, è tutto ciò che inglese non è). I Maestri del football ci degneranno della loro nobile presenza per la prima volta nel 1950, nell’edizione del mondiale disputato in Brasile. Approdati in terra sudamericana con i favori del pronostico, i britannici verranno però presi a schiaffi e pedate dall’ex colonia degli Stati Uniti: un oltraggio, un’assoluta umiliazione! A volte il destino riserva ironici scherzi anche a chi porta con sé il fardello della civiltà intera.
Nei decenni precedenti, l’Inghilterra era stata assai premurosa nell’invitare a casa propria i vincitori della Coppa del Mondo. L’obiettivo era assolutamente chiaro e inequivocabile: ogni terrestre calciofilo doveva convincersi che i migliori a giocare il football nel pianeta sarebbero stati sempre e solo gli orgogliosi e altezzosi insulari.
Nel 1934, dopo il trionfo nel Mondiale casalingo, l’onere e onore di essere invitati a Londra era toccato proprio agli Azzurri: per l’occasione, gli inglesi nemmeno avevano ritenuto opportuno aprire le porte di Wembley, ben convinti che gli italiani si sarebbero adattati, senza troppe lamentele, all’Highbury, il meno sontuoso e prestigioso stadio dell’Arsenal. La partita si era giocata, in un clima tipicamente britannico, il 4 novembre. Nessuno dubitava che il match sarebbe stato estremamente duro, ma in pochi forse avrebbero pensato ad un vero e proprio incontro gladiatorio. A pochi minuti dall’inizio, l’oriundo azzurro Monti, giocatore molto fisico e assai poco Lord nelle maniere in campo, era stato costretto ad abbandonare il rettangolo verde per infortunio, lasciando la Nazionale in inferiorità numerica (non erano previste le sostituzioni). Dopo appena dodici minuti l’Italia era sotto di tre goal e già l’Inghilterra stava pregustando il sapore di un’umiliazione inflitta a chi, così arrogantemente, quasi si era illuso di poter dire la propria. Nel secondo tempo, però, una doppietta di Meazza aveva riportato gli Azzurri in partita, donando all’intero popolo italiano minuti di trepidazione e attesa. Nonostante altre occasioni create (e che avrebbero potuto significare un clamoroso pareggio), il match si era concluso sul 3-2: una sconfitta così onorevole, però, da essere trasformata in un vero e proprio mito. Da una retorica quasi strappalacrime.
Il merito di ciò, in gran parte, va attribuito al radiocronista Nicolò Carosio: la voce enfatica e celebrativa del cantore (così apprezzata anche dal regime), aveva raccontato la quasi impresa azzurra in quella serata autunnale, giungendo a coniare un’espressione che farà storia: gli italiani erano stati “i leoni dell’Highbury”.
Dopo una serie di amichevoli con gli inglesi terminate in pareggio o con sconfitte anche poco onorevoli (una su tutte: l’umiliazione subita a Torino per 4-0, nel 1948), la Nazionale gioca a Wembley per la prima volta il 6 maggio del 1959: la partita si conclude con l’ennesimo pareggio, con le reti di Brighenti e Mariani che vanno ad annullare quelle di Charlton e Bradley. Per il primo trionfo azzurro, però, occorre attendere ancora non poco.
LA PRIMA VITTORIA A WEMBLEY
Tra gli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, Inghilterra e Italia conoscono delusioni, ma anche importanti trionfi. Eliminata prematuramente dal mondiale cileno del ‘62, la nostra Nazionale vive nell’edizione del 1966 una delle più cocenti umiliazioni della sua storia: gli Azzurri di Edmondo Fabbri vengono cacciati al primo turno dalla modesta Corea del Nord. È un punto di non ritorno per l’intero movimento calcistico italiano: il nostro campionato sbarra le porte a stranieri e oriundi, chiudendosi così nel suo glorioso (a tratti anche noioso) isolamento, che verrà spezzato solo a inizio degli anni ‘80.
Nel 1968, però, arriva il trionfo agli Europei, primo notevole segnale di un’agognata rinascita; nel 1970, poi, l’Italia si trova in Messico a giocare partite epiche, dovendo arrendersi soltanto in finale al Brasile di Pelè, e alla gioviale accoglienza in patria, letteralmente a pomodori in faccia, da parte di tifosi poco riconoscenti.
L’Inghilterra nel 1966 il Mondiale lo vince, e proprio a Wembley: trionfa tra le polemiche (cosa poi non rara tra chi la Coppa la vince, giocandola in casa), potendo così finalmente stringere tra le mani il riconoscimento più tangibile della propria (reale o presunta) grandezza. Nel ‘70, poi, gli inglesi non riescono a bissare il successo, venendo anzi eliminati ai quarti di finale dai panzer tedeschi: è una vendetta a sangue freddo per il popolo germanico, ancora sostanzialmente indignato e sconvolto per quella finale persa a Wembley con un goal fantasma di Hurst.
L’Europeo del ‘72 può essere una conferma per l’Italia e un riscatto per gli inglesi: in realtà, si rivela una delusione per entrambe le formazioni, escluse dalla fase finale della competizione (vengono eliminate rispettivamente da Belgio e ancora Germania). Per gli Azzurri e l’Inghilterra, insomma, è ancora una fase di alti e bassi, con un futuro incerto. Le due Nazionali si incontrano, per l’ennesima volta in un incontro amichevole, il 14 giugno del 1973. La partita, a suo modo, si rivela storica; per la prima volta, infatti, gli italiani non solo si accontentano di non uscire con le ossa rotta dalla battaglia contro i sudditi della regina, ma si spingono addirittura fino alla vittoria (che affronto!), con reti segnate da Anastasi e Capello e porta inviolata.
Per il sacco di Londra occorre attendere solo qualche mese. Il 14 novembre (con gli inglesi si gioca quasi sempre in pieno autunno, notava già Brera) l’Italia è ospitata a Wembley dagli anglosassoni. Ecco la formazione schierata da Valcareggi:
Zoff; Spinosi, Facchetti; Benetti, Morini, Burgnich; Mazzola, Capello, Anastasi, Rivera, Riva
La squadra capitanata dall’interista Giacinto Facchetti è un ottimo mix di muscoli e solidità (quelli di Burgnich , Morini e Benetti su tutti), classe e inventiva (Mazzola e Rivera: ora insieme in campo, e non obbligati alla staffetta) e ottima capacità realizzativa (Anastasi e soprattutto Gigi Riva). In mezzo al campo, poi, Don Fabio (così verrà soprannominato Capello una manciata di anni dopo) detta legge e tempi di gioco; il giovane friulano è un centrocampista moderno, un regista di intelligenza e qualità. I palloni migliori sono indirizzati e gestiti dalle sue geometrie, dallo straordinario occhio (che ben conserverà anche da tecnico) di chi sa interpretare ogni istante. Capello ha carattere, pretende rispetto dai compagni (e poi lo chiederà in modo inflessibile ai suoi giocatori), e si distingue per quell’anima un po’ burbera e rigida, ma in fondo sincera e nella sostanza bonaria, di non pochi suoi conterranei (si pensi a Rocco, a Zoff e poi allo stesso Bearzot). Quella serata è proprio lui a segnare il goal dello storico trionfo, dopo una partita di sofferenza: gli inglesi sono attoniti, per la prima volta perdono in casa contro gli italiani, mentre noi ci sentiamo ancora più leoni di tanti anni prima.
Capello incontrerà l’Inghilterra molti anni dopo, andando ad allenarla da commissario tecnico; dopo un ottimo girone di qualificazione, l’avventura degli inglesi al mondiale in Sudafrica del 2010 si concluderà appena agli ottavi di finale, con una sconfitta contro la malefica Germania, e un clamoroso goal fantasma di Lampard non convalidato. Umorismo del destino, o forse dantesca legge del contrappasso.
MAGIC BOX: GIANFRANCO ZOLA E L’INGHILTERRA
Per vincere contro gli inglesi a Wembley in una gara ufficiale (e non più semplicemente in un amichevole) dobbiamo aspettare il 12 febbraio del 1997: Italia e Inghilterra sono inserite nel medesimo gruppo di qualificazione, contendendosi il primato (ironia della sorte: gli Azzurri vinceranno lo scontro diretto, ma saranno costretti allo spareggio contro la Russia). Il commissario tecnico Cesare Maldini schiera i seguenti:
Peruzzi; Di Livio, Ferrara, Costacurta, Cannavaro, Maldini, Di Matteo, Albertini, Baggio D., Casiraghi, Zola.
Tra questi undici, la storia di Gianfranco Zola merita in questa sede un approfondimento. Cresciuto calcisticamente nella sua Sardegna, il talentuoso attaccante aveva posto anche la sua riconoscibile firma sul secondo scudetto napoletano del 1990, prima di emergere definitivamente a Parma. Nella città emiliana Zola vince una coppa Uefa e una Supercoppa europea, dimostrandosi giocatore eccelso, di qualità sopraffina e fiuto del goal; i tifosi lo adorano, insieme lui e a Nevio Scala sognano anche il trionfo in campionato, che però non arriva. Nell’estate del 1996, poi, le cose cambiano drasticamente e in fretta. Scala abbandona l’ex ducato, lasciando il posto a Carlo Ancelotti, all’epoca assai indottrinato dai dogmi scultorei e manichei di Arrigo Sacchi (era stato vice allenatore a Usa ‘94). Il Parma di Carletto è certamente forte, ma con qualche “problema” di sovrabbondanza: il menu in attacco, infatti, propone Crespo e Chiesa, oltre al giocoliere sardo. Nella vita, si sa, si può morire di penuria, ma talvolta non si è in grado di gestire le ricchezza; il neo-tecnico è sì convinto che i tre possano convivere, ma solo sacrificando Zola ad esterno di centrocampo, immolato sull’altare di uno scolastico (diciamolo pure: anche abbastanza oltraggioso) 4-4-2. Sono gli anni, insomma, nei quali il calcio italiano si avvicina sempre più rapidamente alla religione dello Schema, al Verbo di un tattica esasperata; è la stagione del sacchismo imperante e della crociata diffusa (se pur di certo non unanime) contro il genio individuale e contro gli artisti “egocentrici” (che si chiamino Baggio o Zola la sostanza non muta). Certo, sono anche annate di vittorie e raccolti abbondanti, di spettacolo ed emozioni rare: è però vero che la luce portata dalle nuove idee (e anche, in fondo, da presidente ricchi e spendaccioni) talvolta si mescola, nei favolosi anni ‘90, con eccessi di tracotanza e falsi idoli o ideologie pretenziose.
Fatto sta che Zola, bollato dal nuovo Vangelo come un egoista, rompe con Carlo, saluta Parma e viene acquistato dal Chelsea, dove incontra anche Di Matteo e Vialli. Emigrante di lusso, l’attaccante di Oliena conosce in Inghilterra una nuova vita; soprannominato dai tifosi “Magic Box”, Gianfranco incanta, inventa gioco e reti. In poco tempo sottrae il posto da titolare anche a Vialli, provocando forse alcune crepe nell’ambiente londinese. Zola è felice, poiché semplicemente può essere se stesso; si sente libero nell’essere davvero attaccante e inventore.
Il 12 febbraio del ‘97, poi, Magic Box ha un qualcosa da farsi perdonare, un peccato di certo non grave, ma anche doloroso e lancinante. Agli Europei del ‘96, gli ultimi con l’Arrigo in panchina, l’Italia gioca la partita decisiva, in vista dei quarti, contro la Germania: Zola sbaglia il rigore, Italia eliminata. La ferita brucia, il desiderio di donare al Paese intero un momento di gloria è assolutamente vivo. Zola è già il più londinese della Nazionale di Maldini: forse lui solo può colpire a fondo i progetti della nuova terra d’adozione.
Così, infatti, vanno le cose. L’Italia gioca un buon calcio, dinamico, ma anche non soffocato dalle esasperazioni della gestione precedente. Il talento può esprimersi, ogni artista ha la libertà di esserlo fino in fondo. Minuto 19: lancio di Costacurta in profondità, Zola aggancia meravigliosamente, si crea uno spazio quantomeno improbabile e va a segnare sul primo palo. Italia batte Inghilterra per 1-0: è la prima volta nel tempio di Wembley in un match non amichevole. È un riscatto per Zola, una serata comunque storica per l’intero movimento italiano. Tra poche ore ci auguriamo di poter tracciare il disegno di un ricordo ancora migliore.