Massimo Raffaeli è tante cose in uno. Docente, critico letterario, filologo, scrittore di calcio e letteratura, le sue più grandi passioni. Marchigiano di Chiaravalle, classe ’57, Raffaeli ha avuto anche il privilegio di curare testi di grandi maestri come Brera, Arpino e Soldati. Ha collaborato, tra gli altri, al quotidiano “Il Manifesto” cui ha consegnato pezzi d’autore culminati in una bellissima trilogia (L’angelo più malinconico, Sivori, un vizio, e la poetica del catenaccio) destinata a impreziosire il mare magnum della nostra letteratura sportiva. Raffaeli, durante la nostra chiacchierata, è consapevole di percorrere i tortuosi sentieri della nostalgia (sentimento, come afferma, di cui si ci può anche vergognare). Nostalgia che il professore dribbla elegantemente alla maniera di un Sivori (fenomeno che svezzerà calcisticamente il giovanissimo Raffaeli sugli spalti dello stadio Dall’ara di Bologna) con un eloquio colto ed elegante, capace di tenermi incollato per oltre mezz’ora al telefono. Storie di football e non solo raccontate da una delle menti più illuminanti del panorama letterario italiano.
Salve professore, e grazie infinite per la disponibilità: come nasce la sua passione per il calcio?
“Era il 1963, avevo appena 6 anni e mio zio mi portò a Bologna ad assistere alla sfida tra i rossoblù di Fulvio Bernardini, che si avviavano a vincere il loro ultimo scudetto, e la Juventus di Del Sol e Sivori. I felsinei dominarono e vinsero l’incontro, ma io fui rapito dalla prodezza di Omar Sivori, una rete che nessuna moviola potrebbe restituire nella sua bellezza plastica. Quella sfida di fine anno, in quella domenica fredda ma soleggiata, rappresentò -calcisticamente parlando – il mio battesimo laico. Da allora ho sempre tifato Juventus ma più tardi un’altra squadra avrebbe fatto breccia nel mio cuore…”
Ci racconti…
“Parlo degli anni Sessanta, della Lazio dei vari Morrone, Cei, Governato, di cui poi sarei diventato amico, una persona straordinaria, dotata di una intelligenza gentile, che ha un posto speciale nel mio cuore. Un cugino di mio padre abitava a Roma, dalle parti di piazza Mancini e io puntualmente, nel mese di settembre, partivo in treno da Ancona per trascorrere qualche settimana nella Capitale prima che la scuola riaprisse a ottobre. Ho assistito a tante gare di Coppa Italia dei biancocelesti che all’epoca erano di scena nel vicino stadio Flaminio. Fui subito attratto da quel mare di colori biancocelesti sulle tribune. Era un’altra epoca, Roma era bellissima, regnava una pace surreale, mi ricordo delle belle passeggiate in bicicletta da via Flaminia fino a largo Argentina”.
Altri aneddoti legati a quel periodo?
“Ho visto germogliare la Lazio di Chinaglia. Ricordo il mio primo derby sulle tribune dell’Olimpico risolto dal famoso gol di Nanni che dalla distanza indovinò l’incrocio a spese dell’incolpevole Ginulfi. A casa ancora conservo una copia di “Paese Sera”, che a quella vittoria laziale dette ampio risalto con un titolo a effetto. Era un quotidiano (il cui capo servizio allo sport era un certo Aldo Biscardi) formato da tanti giornalisti di fede laziale tra cui spiccava Mimmo De Grandis, papà di Stefano, marchigiano di Pesaro e grande tifoso della squadra biancoceleste”.
E la banda Maestrelli?
“Una squadra unica, aveva una caratteristica straordinaria: il cambio di ritmo repentino e veloce, un’arma rivelatasi poi vincente. Quella formazione annoverava diversi campioni, io ne voglio menzionare due: uno purtroppo non c’è più, Mario Frustalupi, che Brera ribattezzò “gnomo sapiente” per quella singolare sagacia tattica unita a un bagaglio tecnico notevolissimo. Poi Renzo Garlaschelli, che Brera adorava, che lungo la corsia di destra furoreggiava facendosi puntualmente beffe dell’avversario di turno”.
La Lazio di Sarri le piace?
“E’ ancora un cantiere aperto che non ha ancora una fisionomia ben precisa. La squadra che sta prendendo forma sembra interessante, Sarri sa il fatto suo, è una persona saggia e intelligente, dopo gli esperimenti dello scorso anno spero che arrivi qualche risultato importante. Sono abbastanza ottimista, ci sono i presupposti per migliorare il piazzamento della passata stagione e arrivare ancora sopra ai cugini. Mi piace molto Zaccagni. Dopo Chiesa credo sia l’attaccante esterno più rapido e imprevedibile del nostro campionato”.
Come nasce la passione per la letteratura?
“Sboccia tardi, intorno al 2000, a 43 anni. In realtà già poco più che ventenne, nell’ormai lontano 1979, firmai il mio primo pezzo sul “Manifesto”. Ma negli anni, memore del prezioso consiglio del grandissimo Osvaldo Soriano durante una cena a Roma in occasione dei mondiali del 1990, mi sono sempre ben guardato dall’occuparmi di calcio per non screditarmi agli occhi di certa critica seria che giudicava il football come qualcosa di disdicevole, sconveniente. La svolta si è registrata un paio di lustri più tardi con Matteo Patrono (che oggi lavora per Sky) capace di inventarsi una pagina sportiva di assoluto lignaggio sulle pagine del “Manifesto”. Da allora, per più di un decennio, ho iniziato a scrivere di calcio e letteratura, assecondando finalmente le mie due grandi passioni di sempre. Scritti e testimonianze che poi ho compendiato in tre libri, oltre a curare un’antologia di Brera e opere di Arpino e Soldati”.
Le piace il calcio di oggi?
“Lo seguo sempre, ma è diventato un grande spettacolo mediatico planetario, è un fenomeno formattato, omologato, lontano anni luce da quello dei miei tempi. E’ stato profanato nel momento in cui è diventato merce, l’assunto di Pasolini secondo il quale il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, non regge più. Non mi piace poi il modo volgare con cui viene raccontato. Chi urla durante una radiocronaca o una telecronaca, a mio avviso, non fornisce un buon esempio. Est modus in rebus, verrebbe da dire, io ho sempre amato chi parla di football in modo garbato e gentile, senza eccessi, ma con ironia che non significa derisione ma è un termine che deriva dal greco e significa “mettere nella giusta distanza”. Non tollero nemmeno certa prosa giornalistica ammantata di troppa, stucchevole retorica. Paroloni a effetto come “eroi”, “leggendari” mi fanno venire l’orticaria, per fortuna esistono lodevoli eccezioni”.
Tipo?
“Penso a Matteo Marani e Federico Buffa, divulgatori straordinari, mai banali. Poi ci sono scrittori come Darwin Pastorin e Piero Trellini, che recentemente hanno firmato due capolavori come “Lettera a Bearzot” e “La Partita”. Entrambi possiedono l’invidiabile capacità di raccontare il calcio in maniera totale, con disarmante leggerezza che non sconfina mai in fragilità, partendo da un microcosmo come può essere una partita di calcio per poi ricostruire mirabilmente un contesto nazionale e internazionale più ampio e complesso. E’ proprio questo il compito della letteratura. Infine, ho sempre ammirato il modo garbato di raccontare il football in tv del laziale Michele Plastino.”
Maradona o Pelè?
“Senza dubbio il primo. Maradona è stato l’astro più luminoso, il più grande di tutti. Anche più grande di Pelè, altro immenso interprete di “Eupalla”, come Brera chiamava la Dea del calcio. Pelè non si è misurato in Europa, ha giocato in campionati meno logoranti, era una punta truccata. Maradona era un “hombre orquesta”, giocava da casa sua, ha vissuto una vita come uno spreco continuo che, nonostante tutto, ha appena lambito il suo smisurato talento. Il contrario di Pelè che ha saputo tesaurizzare forze e risorse. Comunque per me, ribadisco, non c’è partita tra i due”.
Il suo Maradona del giornalismo sportivo?
“Potrei dire i soliti Brera e Arpino, maestri insuperati. Ma a me piaceva tantissimo Sandro Ciotti, cui tempo fa dedicai uno speciale radiofonico su Rai Radio 3. Una persona dalla cultura smisurata, che sapeva di football come pochi e che coniugava l’amore per lo sport con altre passioni come la musica e la letteratura. Ebbi il grande privilegio di trascorrere una serata memorabile con lui, dalle mie parti che conosceva per aver militato da giovane nelle fila dell’Anconitana. Sandro incantò al pianoforte fino all’alba. Fu bellissimo. Poi Ciotti era un grande laziale”.
Il più grande calciatore italiano di tutti i tempi?
“Difficile rispondere. Potrei citare i grandi attaccanti, così come i fantasisti, ma vado controcorrente e dico due straordinari numeri 1 come Dino Zoff e Gianluigi Buffon, portieri longevi e i più bravi nel ruolo per tantissimi anni”.
Come si diventa giornalisti sportivi?
“I giovani di oggi sono molto preparati ma devono credere maggiormente in loro stessi e sviluppare un maggiore senso critico. Quando mi capita di mettere piede in tribuna stampa vedo questi ragazzi troppo alle prese col computer, strumento utilissimo per carità, ma farebbero bene a osservare direttamente il rettangolo di gioco, il teatro della sfida. In giro c’è troppa formattazione, guardano tutti dallo stesso punto di vista, questo è il vero deficit. Se non vedi la partita cosa racconti?”.
Intervista a cura di Libero Marino