Si intitola “Lettera a Bearzot”. E’ l’ultimo lavoro di Darwin Pastorin, giornalista e scrittore, classe 1955, il cui curriculum è degno dei fuoriclasse del mestiere più bello del mondo. Privilegio che legittimamente ha avuto lui, figlio di emigranti veneti che nel dopoguerra partirono a cercare fortuna in Brasile, una terra di cui ancora oggi è innamorato e che rievoca sempre con grande affetto. La terza prova “epistolare” di Pastorin (che si giova della prefazione di Alessandro Di Nuzzo, casa editrice Aliberti) è uno splendido omaggio al “Vecio” Bearzot (come lo ribattezzò Giovanni Arpino nel suo inarrivabile “Azzurro Tenebra”), lo straordinario condottiero di Spagna ’82. L’Enzo nazionale è nel destino del futuro giornalista Pastorin. E’ il 1977, siamo alla vigilia della spedizione azzurra in Argentina (parentesi esaltante quanto sfortunata), e il giovane Darwin, per ordine dell’allora direttore del “Guerin Sportivo”, Italo Cucci, deve intervistare il tecnico della Nazionale. Darwin, felice come un bambino, non esita a chiamare l’albergo degli azzurri. Il caso vuole che Bearzot si trovi proprio lì vicino e ascolti la conversazione telefonica ma col “Guerino”, con cui è in rotta di collisione da un po’, proprio non vuole parlare. Darwin non si dà per vinto, spiega al centralinista che quella è l’occasione della vita. Bearzot finalmente annuisce, si dice disposto a conversare con quel giovane di belle speranze. E’ la svolta per Pastorin, “un putto sotto quella cascata di capelli che solo Cocciante può vantare” (per dirla con la penna illuminata ed elegante di Massimiliano Castellani), che con un colpo solo confeziona la sua prima, importante intervista col “Vecio” sancendo così anche la pace con la rivista di Cucci. E’ l’inizio di una carriera luminosa, scandita da tanti viaggi in tutto il mondo a raccontare football, idealmente scortato dai suoi maestri Arpino, Soriano, Salgari e Caminiti (con cui collaborerà a Tuttosport). Da ormai mezzo secolo Pastorin non scrive, ma dipinge quadri d’autore intingendo il suo pennello in un inchiostro pregiato, consegnandoci una prosa elegante e agile, perchè il calcio ha bisogno di certi aedi. Del resto, il football è poesia, arte, letteratura.
Salve e grazie per la disponibilità. Chi è stato Enzo Bearzot?
“Il Vecio era una persona unica, dotata di una grande cultura. Spaziava con disinvoltura dalla politica alla letteratura che conosceva benissimo, imbevuto com’era di studi classici. Al suo cospetto non ti annoiavi mai, ricordo bene la prima intervista che riuscii a strappargli a Villa Sassi, nel ritiro degli azzurri; una chiacchierata bellissima nella quale l’argomento calcio fu solo sfiorato dal tecnico friulano. Bearzot era uno vero, puro, una sorta di Don Chisciotte che, allergico ai compromessi, sentiva solo le ragioni del suo cuore; un grande uomo, moralmente ineccepibile, capace di sconfiggere presto veleni, rancori e polemiche portando l’Italia dal buio di Vigo al miele di Madrid”.
E che difese fino alla fine Paolo Rossi, rivelatosi poi capocannoniere…
“Il grande Pablito, uno dei miei più cari amici fino al 2020, anno del suo definitivo congedo. Quella mattina di dicembre di due anni fa, appena ne appresi la scomparsa, scoppiai a piangere come un bambino. Paolo è stato un uomo meraviglioso, un poster italiano itinerante, fulgida epifania; è rimasto lo stesso anche nel momento della sua maggiore fama e ha vestito sempre con grande umiltà la gloria”.
Qualche anno fa ha dedicato un libro a un altro grande di quella spedizione azzurra in Spagna come Scirea…
“Un angelo sceso dal cielo, così disse di lui ai tempi dell’Under 21 proprio Bearzot e la definizione del tecnico friulano dice tutto”.
Che ricordi conserva di quella splendida impresa, 40 anni dopo?
“Fui inviato dal direttore di “Tuttosport” Baretti a seguire il “mio” Brasile a Siviglia. Rimasi subito incantato da Zico e soci, capaci di approdare con imbarazzante facilità alla fase successiva del Mondiale. Era, quello della squadra di Santana, un calcio meraviglioso di cui mi innamorai subito; i verdeoro regolarono anche l’Argentina di Maradona ma non avevano fatto i conti con l’Italia, che quell’ormai celeberrimo 5 luglio al Sarrià di Barcellona riscrisse la storia trascinata da un sontuoso Pablito. Fu un pomeriggio strano per me, fui travolto da mille emozioni, io col cuore diviso a metà tra Italia e Brasile (come spiega mirabilmente Piero Trellini nel suo bellissimo “La Partita”), con mia madre che alla vigilia mi chiamò da Torino esortandomi scherzosamente (ma non troppo…) a tifare azzurri”.
E la magica notte di Madrid?
“Altri ricordi bellissimi, eravamo tutti emozionatissimi in tribuna stampa; tra i tanti momenti straordinari di quella notte, spicca su tutti il mio abbraccio con Claudio Gentile sulla scalinata che conduceva alla premiazione degli azzurri da parte del re Juan Carlos: l’Italia si era appena laureata campione del Mondo e io ero lì, per il mio primo Mondiale, inviato di “Tuttosport”, a raccontare quella fantastica impresa”.
Facciamo un salto indietro: lei con la sua famiglia torna definitivamente in Italia nel 1961, anno del Pallone d’Oro a un certo Omar Sivori: il talento argentino è stato, a suo avviso, un Maradona “ante litteram”?
“Senza dubbio. Il mio grande cruccio è quello di averlo visto poco dal vivo. Omar era capace di colpi di genio incredibili, era la fantasia al potere, tanto che l’avvocato Agnelli anni dopo lo ribattezzerà il “vizio”. Con noi giornalisti era sempre molto disponibile. Un autentico fuoriclasse della “pelota”, sicuramente il più grande numero 10 prima di Maradona”.
Maradona…
“Il calcio. Il più grande di sempre e per sempre, un giocatore fantastico, era uno spettacolo vederlo anche in allenamento. Sono nato in Brasile, potrei preferirgli l’immenso Pelè, ma Diego è stato Diego, ha incarnato l’essenza del football inteso come divertimento, poesia pura, classe cristallina. Maradona era capace di illuminare con un solo tocco d’autore la sfida: il più grande di tutti. Peccato per quella fine in solitudine, ma io voglio ricordarlo per le prodezze che ci regalava in campo: appena la palla finiva tra i suoi piedi iniziava la poesia del calcio”.
Come nasce il suo amore per il giornalismo e la letteratura?
“Una passione che ha antiche radici. Ho cominciato fin da piccolo a leggere e scrivere, grazie a mia madre che in Brasile, in italiano, mi leggeva le avventure di Emilio Salgari, mio grande punto di riferimento del quale ho letto tutti i romanzi. Poi sono venuti i vari Arpino, Brera, Soriano, Caminiti e Galeano, maestri inarrivabili cui mi sono sempre ispirato; ai giovani che vogliono avvicinarsi al giornalismo dico di leggere tanto, di essere sempre curiosi, la strada è più difficile rispetto a una volta, ma la caparbietà e la feroce determinazione vincono sempre”.
Le piace il calcio di oggi?
“Il football è cambiato tanto, non c’è dubbio. Ai miei tempi potevi intervistare la stella di turno sul campo di allenamento, perfino a casa, oggi è tutto più filtrato e ovattato. Detto ciò, seguo ancora con grande interesse i vari campionati a partire dal nostro; l’ultimo è stato incerto e avvincente e anche quello che sta per iniziare si preannuncia interessante con diverse squadre pronte a contendersi il tricolore: sono sicuro che ci divertiremo ancora”.
Prima di congedarla, un’ultima battuta sull’Italia di Mancini…
“L’eliminazione per mano della Macedonia brucia ancora, non c’è dubbio. Dopo lo splendido Europeo forse ci siamo adagiati un po’ troppo, è già successo in passato, ma sono convinto che il periodo di purgatorio è destinato a finire presto perchè il tecnico azzurro sta facendo, a mio giudizio, un ottimo lavoro con i giovani: la sua Italia, vedrete, tornerà presto protagonista”.
Parola di Darwin Pastorin
Intervista a cura di Libero Marino