Di calcio si può vivere in molti modi: per alcuni è divertimento (proprio nel senso originario di divertissement, ovvero “distrazione”, evasione) per altri ossessione, per altri ancora esperienza di vita o mestiere. Ad ogni modo, “il gioco più bello del mondo” (così lo definiva Brera) contribuisce a regolare l’esistenza di milioni di individui, intersecandosi con i lati più emotivi, ma in fondo anche razionali, della quotidianità. Il calcio, in altri termini, è parte di una storia comune, condivisa e piena, non riducibile a un’astrazione tecnica, ma nemmeno a una spettacolarità imposta: così venduta e banalmente pubblicizzata, da risultare in fin dei conti falsa. Per provare a parlare di calcio a vari livelli, valorizzandone la dimensione culturale e anche simbolica, “il Calcio Quotidiano” ha scelto di intervistare in esclusiva Andrea Antonioli, direttore di “Contrasti“, una gemma preziosa nell’oceano dell’informazione sportiva.
1) Buongiorno Andrea, e grazie per aver accettato la nostra intervista. Per iniziare: quando e come è nato “Contrasti”?
Buongiorno a voi e grazie. Contrasti nasce nel novembre 2016 da un gruppo di ragazzi, e poi amici, che non si voleva rassegnare alla narrazione sportiva corrente. Quella fatta da un lato di spettacolarizzazione, pettegolezzi e titoloni, dall’altro di derive tatticiste e scientifiche. Insomma, nasce dall’esigenza di un’epica pop sportiva, che non perdesse di vista la cornice “culturale” (sociale, politica, territoriale, identitaria etc.) senza però cedere all’operazione – commerciale e disonesta – della nostalgia. All’inizio sapevamo innanzitutto ciò che non eravamo e ciò che non volevamo, per citare Montale, poi con il tempo ci siamo calibrati. Oggi abbiamo mille anime, ma che remano tutte in un’unica direzione: un racconto sportivo che non si concentri solo sul campo, ma su tutto quello che il campo rappresenta.
2) Oggi l’informazione sportiva in Italia si muove in diverse direzioni: tralasciando tutto ciò (una buona parte, purtroppo) che è meramente finalizzato ad un incremento delle visualizzazioni, e magari al profitto, esistono siti e pagine autorevoli specializzate nell’analisi tattica, mentre Federico Buffa ha rappresentato certamente una svolta nello “strorytelling”. Come valuti questo scenario? Quali ritieni siano le principali problematiche?
Credo queste siano due risposte fisiologiche: l’analisi tattica è il risultato di esseri umani che non ne possono più di esseri umani, di analisti di calcio che non ne possono più del calcio (tradizionale). Siamo in una società in cui regna l’estrema specializzazione delle discipline, e questo è comprensibile in ambito lavorativo (seppure sono convinto sia un modello ottuso). Quindi è naturale che gli addetti ai lavori calcistici si avvalgano degli strumenti tecnologici più avanzati per studiare o preparare le partite; non capisco però il voyeurismo del tifoso che vuole conoscere l’heat map di Tonali, o di quello che vuole capire perché la propria squadra abbia perso tatticamente la sera precedente.
Le società che perdono epica diventano inesorabilmente ossessionate dal controllo, come sta accadendo a noi. L’analisi tattica è la malattia senile del calcio europeo e “progredito”. Non è un caso che altrove, dove il football ha ancora un valore sociale, culturale, epico e popolare, essa sia prossima allo zero: dal Sudamerica ai Balcani, dall’Africa all’Asia (come d’altronde capitava da noi fino a qualche anno fa). Insomma, oggi il progressismo è diventato un’ideologia totalitaria, anche nel calcio: ci si affida completamente alla tecnologia contando che ci dia risposte oggettive. Basta ascoltare Nagelsmann che chiede l’introduzione degli auricolari in campo per i giocatori, o la proposta di Wenger di rendere il fuorigioco automatico già da Qatar 2022, come già succede nel tennis che punta a liberarsi dei giudici di linea. E tralasciamo il dominio tecnologico delle varie goal line tecnholgy, VAR e via discorrendo, tutti strumenti che crediamo neutri ma che in realtà non lo sono. Siamo ossessionati dalla “verità” e dal controllo, incapaci di accettare l’intervento del caso, fino al punto di voler trasformare il calcio in una scienza e ridurre al minimo l’intervento umano. Per questo noi staremo sempre con Allegri – “voglio giocatori pensanti e non polli d’allevamento – e non con Nagelsmann, che si accontenta dei polli d’allevamento purché siano telecomandati.
Per lo storytelling invece, è il tentativo disperato di restare umani, di spremere umanità dal mondo del pallone: l’esigenza è sacrosanta, e il lavoro di Federico Buffa è stato – soprattutto nei primi tempi – una grande boccata d’ossigeno. Il modello Buffa riusciva a proporre contenuti legandoli al sentimento: il problema, come per Guardiola, sono stati i suoi emuli. Se non hai Messi, Xavi e Iniesta è difficile fare il tiki-taka; se non hai le competenze di Buffa e del suo team, lo storytelling calcistico diventa un racconto smielato ai limiti del diabete, retorico a più non posso, che impara due-tre concetti e li ripete fino alla nausea – letteralmente. Così ci ritroviamo centinaia di articoli tutti uguali sul “sogno” del giocatore x che “è cresciuto in povertà” e ora manda i soldi alla mamma. Pietà, restiamo umani – ma pensanti.
3) Leggendo i vostri articoli, l’intreccio tra storia culturale in senso lato e sport appare abbastanza evidente. Ti chiedo: ritieni che vi sia un legame tra quella che è l’espressione calcistica di un Paese e l’identità del suo popolo? Se sì, fino a che punto in un mondo che è altamente globalizzato?
Eh, domanda complessa. Sicuramente c’è sempre stato, è innegabile: non serve riprendere gli articoli e le teorie di Brera, basta aver seguito il calcio nel secolo scorso. Il calcio però è specchio della società, e non ci possiamo stupire che oggi questo legame si sia sfilacciato. Qualcosa resta – la grande Juventus dell’ultimo decennio ad esempio è stata italianissima, sia nei giocatori che nel carattere e nella consapevolezza – ma oggi questo fattore pesa sempre di meno. Con la globalizzazione anche sportiva, i giocatori girano sempre di più e la vecchia scuola di allenatori sta andando in pensione. Si stanno imponendo nuovi modelli in Europa, e la Premier ne è l’esempio perfetto: dire oggi che la Premier League sia il campionato inglese può essere vero solo di nome. Del calcio inglese per come lo abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90, la PL non ha assolutamente nulla: ci può essere qualche squadra ogni tanto, il Burnley o lo Stoke City di turno, ma sono gli ultimi colpi di coda. Il discorso è ampio, credo ancora che l’identità – non solo tattica ma anche nazionale, fondata su tradizioni, lingua e visione del mondo simili – aiuti e molto le squadre, seppure sia spesso insostenibile. Eppure, la partita non è chiusa come si potrebbe pensare. L’Italia ha vinto gli europei non solo con il “bel gioco”, ma anche con il carattere di un gruppo e di uno spogliatoio italianissimo.
4) Gianni Brera resta un punto di riferimento imprescindibile per il vostro giornale. Mi sapresti mettere in evidenza quelli che sono i principali meriti del giornalista lombardo?
Brera non solo ha inaugurato un nuovo linguaggio per il giornalismo sportivo ma, secondo noi, ha fondato lo stesso giornalismo sportivo italiano. Il linguaggio d’altronde è un mondo, e Brera creando uno ha creato l’altro. Ha dato dignità allo sport legandolo alla società e alla cultura, e ha tracciato una via nazionale e culturale valida ancora oggi: lo sport, se ridotto ai soli fatti di campo, perde qualsiasi valore epico ed etico.
5) Tra i viventi, chi consideri tra i Maestri dell’informazione sportiva?
Mh, viventi… citerei innanzitutto due Gianni: Minà e Clerici. Loro sono letteralmente due maestri, ma proprio perché con lo sport restituivano mondi. Clerici con la sua stessa voce ti faceva capire cosa fosse il tennis, senza di lui e Rino Tommasi io non mi sarei mai innamorato di questo sport (mi piace molto anche Elena Pero, che ha un po’ raccolto il testimone). Minà che dire, un uomo e un giornalista del ‘900 nel senso migliore dell’espressione. Poi ci sono tanti giornalisti anche di calcio che stimo molto, da Roberto Beccantini – un autentico signore – a Italo Cucci. Ma in generale tutta la vecchia guardia aveva qualcosa in più, proprio a livello umano e culturale. Dove li trovi d’altronde oggi un Montanelli o un Giorgio Bocca? Dei contemporanei ci sono diversi telecronisti o radiocronisti bravi, anche qualche opinionista, ma fatico davvero a trovare un maestro. Ci tengo però a ringraziare il direttore Zazzaroni: gliene dicono tante ma lui se ne frega e credo faccia benissimo. È uno che parla chiaro, e che in sei mesi al Corriere mi ha fatto capire tantissime cose, molte anche senza bisogno di dirle. Non sarà un maestro nel senso tradizionale del termine ma a me, ripeto, ha trasmesso molto. Cosa che non mi è capitata altrove.
6) Torniamo un attimo al “Giuan”. In un’intervista televisiva del 1983, a una domanda riguardante la violenza negli stadi, Brera rispose così: «Intanto la violenza negli stadi è un’invenzione di quattro imbecilli che non hanno nulla da dire. In un Paese come l’Italia dove si ammazza un uomo al minuto parlare di gente che si spacca la faccia a cazzotti o anche si vibra qualche coltellata così “salutare” è ridicolo […] Per me è fenomenale che gli spettatori del calcio si accoltellino così poco». Ora, al di là dell’autorevolezza di Brera (poteva permettersi di dire qualsiasi cosa), oggi una risposta simile risulterebbe non accettabile e anzi censurabile. Ti chiedo: ritieni che esista un eccesso di “politicamente corretto” nella comunicazione sportiva? Fino a che punto è davvero possibile “scandalizzare”?
Rispondo per quei pochi che non fraintenderanno le mie parole. Negli ultimi anni della vita, dopo aver cullato sogni di emancipazione e a proposito di “scandali”, Pasolini diceva: «Mi sono reso conto di una cosa che scandalizzerà i più, e che avrebbe scandalizzato anche me appena dieci anni fa. Che la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Il gran male dell’uomo è la perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo». Vale un po’ lo stesso discorso per gli ultras e per tutti quei residui maleducati del secolo scorso: io stesso ho criticato più volte le degenerazioni delle curve, ma sbagliavo; ben peggio dei criminali e degli spacciatori c’è la perdita di umanità del nuovo calcio, degli stadi ipermercato. Io, ragazzo normale, cresciuto in un quartiere bene, diplomato al liceo classico e laureato in filosofia, ringrazio di aver vissuto l’esperienza della curva anche accanto a qualche criminale. Di certo un’esperienza antropologicamente più formativa della partita allo stadio teatro.
Per quanto riguarda invece il politicamente corretto, abbiamo perso il controllo. La vittima è l’eroe del nostro tempo, diceva non ricordo chi: la nostra è l’epoca del vittimismo, delle minoranze protette come fossero specie in estinzione. Così però muore la comicità, come ha detto Verdone, ma muoiono anche la goliardia e la provocazione. Certo è cambiata la sensibilità, e dobbiamo tenerne conto. Non sto dicendo che dobbiamo tornare a vent’anni fa, quando negli stadi si diceva e faceva di tutto, ma non possiamo neanche accettare che per un coro contro Napoli si diventi trogloditi, razzisti, xenofobi al limite dei criminali. Il problema del politicamente corretto è che è diventato un effetto domino inarrestabile, un’ideologia messianica. Non gli si può porre freno. Ci sarà sempre un’altra sensibilità da rispettare, e poi un’altra, e poi un’altra ancora. Inoltre la minoranza rumorosa che imbraccia il tema delle discriminazioni (e della loro repressione) ha in mano le leve dell’informazione, la quale ormai ha rinunciato ad informare per formare. Perché lo faccia, è un altro ed enorme discorso.
7) Soffermiamoci, invece, sulle questioni sollevate da quella domanda: esiste effettivamente un problema legato all’intersezione tra tifo e cultura sportiva in Italia?
Onestamente non credo. O meglio è naturale, il tifo deforma il mondo: ci sono studi neurologici che mostrano come due gruppi di tifosi avversari, assistendo alla stessa partita, vedano cose diverse. Spesso non esiste una realtà oggettiva quando si tifa, è difficile essere obiettivi, come quando si è innamorati. Ma va bene così, chisenefrega dell’obiettività e della cultura sportiva. Viva l’amore, anche quello un po’ malato.
8) In un’intervista del 1970, Pasolini definisce il calcio come «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo: è rito nel fondo, anche se è evasione». Qual è la relazione tra la vita/il pensiero di Pasolini e il calcio? E poi: andando anche oltre Pasolini, ritieni sia possibile mettere in relazione il Sacro con lo sport?
Sembra una risposta banale ma per Pasolini il calcio era vita. Pasolini era un affamato di vita, la ricercava in ogni angolo soprattutto in un periodo che, con la mutazione antropologica consumista, iniziava a minacciarla sempre di più. Il calcio rientrava in questa ricerca disperata di umanità, e per quanto riguarda il sacro lui usò il termine un po’ alla leggera, metaforicamente. Intendeva dire che era un rito collettivo, fisico e materiale, dai giocatori al pubblico. Per quanto riguarda invece il sacro in senso lato penso che ci possa essere un legame, come lo pensava Ratzinger e immagino lo pensi anche Bergoglio. Ma qui si aprirebbe un discorso veramente troppo ampio, dipende innanzitutto da cosa si intende per sacro e anche da cosa si intende per relazione.
9) Negli Scritti Corsari Pasolini si scaglia contro «il nuovo Potere», ben rappresentato dalle televisioni e dalla loro spinta conformistica. In primo luogo: come le televisioni hanno trasformato il calcio? In seconda battuta, poi, ti chiederei di analizzare l’impatto che il mondo del web ha e avrà ancora sul nostro sport: vedi possibilità per una sempre maggiore interazione e partecipazione da parte dei tifosi e appassionati, o invece temi una nuova degenerazione?
Le televisioni hanno reso il calcio prodotto e spettacolo, sottraendo anche l’aspetto della fisicità. Era inevitabile, è il linguaggio stesso della tv. Tutto ha un linguaggio: ci illudiamo forse che gli smartphone non impongano un linguaggio? Crediamo davvero che siano solo un mezzo? Abbiamo decine di dati e centinaia di studi che mostrano come l’uso degli smartphone modifichi la nostra stessa visione del mondo. Oggi non abbiamo sufficiente contezza della portata della rivoluzione tecnologica in ogni ambito del reale e del simbolico. Lo sport per come lo abbiamo conosciuto è naturale che venga stravolto. Per quanto riguarda i tifosi possono pure partecipare, ma che vuol dire? Chi è il tifoso che partecipa, quello di Shanghai che non sa nulla della tradizione del club e magari lo tifa per Ronaldo o Lukaku? E poi che vuol dire partecipazione. La storia dei Fan Token è l’ultima risorsa di un sistema che non sta più in piedi, che ha perso il suo pubblico di riferimento e deve conquistarne uno nuovo. Chi ne parla come di un azionariato diffuso digitale, purtroppo non ci ha capito nulla.
10) Oltre a Brera e Pasolini, un’altra figura da voi spesso tenuta in grande considerazione (e di certo capace di “scandalizzare”) è quella di Carmelo Bene: per C.B. (come si faceva chiamare) il calcio è Arte?
Beh, lui per cercare l’emozione si recava negli stadi, non nelle sale di teatro – sue stesse parole. Però c’è da dire che per Bene lo sport non era tanto quello che abbiamo detto prima: tifo, società, cultura etc. Per lui lo sport era estetica nel senso profondo del termine: la punizione di Platini davanti a cui si inginocchiava come un bambino, le movenze di Van Basten o quelle di Edberg che assumevano dei tratti profetici. Lui si emozionava quando i giocatori “erano giocati”, profeti appunto dello sport stesso, e poi era capace di trasfigurare. Lo faceva continuamente nello sport, era un assoluto mitomane: cinico e disilluso nella vita di tutti i giorni ma capace di restare senza parole se incontrava al ristorante Falcao. Non è semplice spiegare… se vuoi ti do il numero di Giancarlo Dotto, gli fai uno squillo e ti fai dire! Oppure acquisti “Il Dio che non c’è” e leggi il capitolo dedicato.
11) Passiamo ad alcune delle questioni più dibattute negli ultimi tempi. La discussione intorno alla possibile Superlega (il progetto, almeno per ora, sembrerebbe essere naufragato) ha sollevato non pochi dubbi intorno alla sostenibilità del modello attuale di calcio. Qual è la tua posizione in merito? Quali sono eventualmente le ragioni e i torti dei “ribelli” e quelle delle istituzioni?
Il problema dei ribelli è concettuale: vogliono dare a un tossicodipendente ulteriore droga per risolvere la crisi. Il calcio oggi non è sostenibile, lo sappiamo, ma nemmeno il modello Superlega alla lunga lo è, a meno che non trovi non 1 ma 10 JP Morgan come sponsor. E comunque resta un modello drogato, seduto su una bolla. L’esempio per me resta quello tedesco con la partecipazione virtuosa dei tifosi, seppur con tutte le difficoltà del caso di “importazione” – il Barcellona in Spagna ad esempio, malgrado sia partecipato, ha oltre un miliardo di debiti, ma paradossalmente proprio questo gli ha consentito di non fallire. Discorso lungo, sicuramente il moralismo di Ceferin e soci è stato patetico, ma non per questo possiamo riabilitare la Superlega: un progetto troppo accelerazionista, antisportivo, che può essere guardato con favore solo dagli anticonformisti in cerca di gloria, dagli anarco-liberisti e dai nuovi consumatori interessati esclusivamente al “main event”. Un progetto che però, temo, prima o poi si realizzerà.
12) Per quanto riguarda l’evoluzione del gioco, negli ultimi trent’anni la rivoluzione di Sacchi, e poi quella di Guardiola, hanno probabilmente segnato un’epoca; secondo la tua opinione, che impatto hanno avuto questi due allenatori (e i loro allievi) sul modo di praticare e pensare calcio nel nostro Paese? Ti chiederei, se possibile, di analizzare gli aspetti positivi e, se ci sono, quelli negativi.
Non sono un tattico, posso solo dare la mia modesta opinione a livello “culturale”. Sacchi la rivoluzione l’ha importata con grandi meriti, ma in Italia è rimasto sostanzialmente un fatto isolato – metafora ne è il fatto che poi il Milan vinse tutto con il tradizionalista Fabio Capello. Non seguo poi Sacchi sul suo copione semplicistico: lui genio e innovatore in un Paese strutturalmente reazionario, ottuso e difensivista. La questione è molto ma molto più complessa, eppure a molti fa comodo incoraggiare il ritornello sacchiano. Comunque Sacchi ha avuto tanti emuli, anche in giro per l’Europa: leggevo recentemente una biografia di Klopp e il suo maestro in Germania, Wolfgang Frank, era stato stregato da Sacchi, vedeva continuamente i video delle sue squadre. Così Frank decise di importare il 4-4-2 in una Nazione legatissima al ruolo del libero, e fu una rivoluzione traumatica e molto osteggiata. Con il tempo molti lo seguirono, ma sarebbe assurdo dire che Sacchi abbia condizionato il calcio tedesco, anche perché lui stesso guardò altrove per inaugurare la sua filosofia calcistica. Ci sono sempre stati gli sperimentatori, l’Ungheria negli anni ‘50 giocava col falso nove, poi ci sono degli uomini – carismatici – che riescono a segnare le epoche proponendo innovazioni e ottenendo risultati.
Guardiola nella storia del calcio vale più di Sacchi, ha avuto una carriera da allenatore diversa ed è ancora nel fiore degli anni – per quanto la sua ansia da prestazione mista a mania di controllo lo stia facendo rapidamente invecchiare. Ad ogni modo, complice la globalizzazione calcistica, il suo Barcellona è diventato un modello internazionale. Pep ha dato tanto al calcio, comprese le contromisure che gli altri con fatica hanno dovuto trovare, e sicuramente ha innescato un circolo virtuoso di sperimentazione tattica. Eppure personalmente sono un po’ stanco delle etichette e delle filosofie troppo ampie: lo stesso Guardiola è stato uno, nessuno e centomila, ha adattato il suo stile di gioco agli ambienti riuscendo ogni volta a modificare qualcosa. Come sempre succede, quando prendi alla lettera qualcuno – magari non essendo così bravo, e non avendo Xavi, Iniesta e Messi – ci sono gli effetti collaterali anche pesanti: se vedi l’albo d’oro della Champions degli ultimi dieci anni hanno vinto sempre le squadre più forti, dal Real Madrid al Barcellona stesso della MSN, dal Bayern al Liverpool (e anzi in finale a lottarsela sono spesso arrivate squadre non certo sacchiane-guardioliane, dalla Juve di Allegri all’Atletico di Simeone). La differenza la fanno i giocatori, non gli allenatori. Ciò non toglie che uno come Guardiola abbia avuto tantissimi meriti: gli altri si sono dovuti superare per trovare un antidoto al suo gioco, e da lì non a caso il calcio fatto di verticalizzazione improvvise e contropiedi fulminei ha trovato nuove risorse. Comunque è un tema che non si può esaurire in una risposta.
13) Mourinho è tornato ad allenare in Italia: cosa ha rappresentato e cosa rappresenta questo tecnico per il nostro sport?
Un nuovo tipo di allenatore, eppure oggi secondo alcuni è già superato: pensa un po’ quanto corriamo. Mourinho è stato profeta della sua stessa frase più famosa: «chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio». Chi oggi è solo un allenatore di campo non sa nulla di cosa significhi fare l’allenatore. Il suo è un personaggio studiato nei minimi dettagli, ma su Mourinho si è detto tutto e di più: ci sono centinaia se non migliaia di articoli e decine di libri. Oggi è un bene averlo nel nostro campionato, io penso che possa dare ancora molto. E poi la sua dote di essere condottiero ovunque può anche essere studiata con dichiarazioni paracule e adattate al contesto, ma è magnetica, mi attrae terribilmente. Il suo problema è che deve alimentare il personaggio, perché se muore quello – o perde forza – muore anche l’allenatore.
14) Per finire, ti chiedo un parere sulla Nazionale di Mancini: la vittoria all’Europeo ha davvero dimostrato che il cosiddetto “calcio all’italiana” è ormai superato?
Dobbiamo metterci d’accordo innanzitutto su cosa si intenda con “calcio all’italiana”. Qui c’è un’incomprensione di fondo, il carattere italiano sta da sempre nell’ingegno eclettico, nella capacità di barcamenarsi sempre e arrivare al risultato. L’Italia è stata patria del difensivismo più per necessità e tradizione che per convinzione ideologica. Mancini ha capito che con quella squadra poteva e doveva giocare così, ma se avesse avuto un’altro tipo di rosa avrebbe fatto un altro tipo di gioco: ricordiamoci come interpretava le partite la sua Inter, che avrà avuto un’altezza media di 1.90 cm. Il carattere italiano sta qui, non nel difendersi ma nell’adattarsi rifiutando i dogmi. Questa Italia aveva un centrocampo molto forte, e due registi che dovevano necessariamente giocare insieme come Jorginho e Verratti. Quello è stato il primo punto fermo di Mancini, giustamente. Da lì, considerato anche che davanti non aveva fenomeni in grado di vincere da soli la partita, si doveva partire per impostare la squadra. Solo un dogmatico avrebbe giocato tutti dietro e poi in contropiede con Jorginho, Verratti e Insigne. Ma parlare di stili di gioco come se fossero ideologie è folle: il gioco si deve adattare ai calciatori, non il contrario. Questo è fondamentale. Il Barcellona di Guardiola, lo ammise lui stesso, giocava così perché aveva quegli interpreti, non per la nobiltà etica ed estetica del cosiddetto tiki-taka. Il fatto è che i cosiddetti “giochisti”, i fautori del calcio offensivo e del bel gioco (che poi non vuol dire nulla), sono intimamente dittatoriali: applicano al calcio un’ideologia progressista, anche qui messianica, per cui il loro è l’unico modello degno. Neanche utile, bensì degno e possibile, è diverso. I cosiddetti difensivisti, sempre che esistano, non ti direbbero mai che il calcio offensivo va abolito o superato. Al contrario, le squadre difensive sembra che siano segnate da un peccato originale: peccato che poi spesso vincano, come l’anno scorso accaduto all’Atletico in Spagna, al Lille in Francia, al Villareal in Europa, all’Inter (della seconda parte della stagione) in Italia. Quel ritornello secondo cui “il gap si colma con il gioco offensivo” è la più grande cazzata degli ultimi anni. A vedere i fatti senza ideologia, anzi, si noterà quasi sempre il contrario.
15) Il calcio tra trent’anni: il tuo sogno e la tua previsione.
Credo che solo adesso stiamo entrando, e molto velocemente, nel transumanesimo. Ne ero convinto anche prima della pandemia, e ricordo ancora una conversazione di tre anni fa con un caro amico: cazzeggiavamo sul fatto che ci sarebbe stato un evento traumatico ad accelerare il passaggio ad un modello di società e di individuo post-umani: guerra o pandemia? Poi è arrivato il Covid, che non ha messo in discussione i nostri stili di vita come in molti pensavano ma è stato invece – per l’appunto – un formidabile acceleratore. Il calcio riflette questa accelerazione, e il Covid ha solo esasperato contraddizioni già presenti e tendenze già in nuce. Credo quindi che il grande calcio seguirà e anticiperà le sorti sociali, vivrà la cosiddetta “transizione” – parola molto draghiana – liberandosi piano piano dei vecchi cosnumatori e rinunciando sempre di più ai contenuti identitari, rituali, simbolici per diventare uno spettacolo continuo, sradicato e virtuale (già lo vediamo quest’anno, in cui avremmo bisogno di tre abbonamenti – di cui due a piattaforme streaming – per seguire tutte le partite). Confido però nella reazione dal basso, degli umani che vogliono restare umani. Oggi nella società non ci sono più energie, siamo tremendamente stanchi, altro che ripresa. Si è prosciugata ogni opposizione da qualsiasi punto di vista ma le cose accadono molto velocemente: sta a noi pensare e strutturare una risposta al mutamento calcistico-antropologico, magari ripartendo dal basso. Poi probabilmente perderemo, ma non per questo non dobbiamo tentare.