Il ritorno di Sarri a Napoli, da allenatore laziale, non si è rivelato di certo dei migliori: la squadra romana è stata sconfitta per 4-0, regalando ai campani il primato solitario in classifica. Nella città partenopea, l’allenatore toscano ha lasciato tracce di storia, sapendo costruire e proporre un modello di gioco innovativo e dinamico. Il sarrismo, poi, si è trasferito a Londra e addirittura a Torino, per ritentare ora, nella capitale d’Italia, il rovesciamento di gerarchie consolidate. Poco meno di cinquant’anni fa, un tecnico dalle idee innovative, di nazionalità e scuola brasiliana, iniziava a porre a Napoli le basi di una possibile e sognata rivoluzione. L’utopia di Vinicio (di lui stiamo parlando), però, non sarà realizzata pienamente, producendo spettacolo, ma non raccogliendo trofei. L’ambizioso allenatore ci riproverà a Roma, sponda laziale, finendo però per essere travolto da pressioni ambientali, drammi e ombre poco gestibili. In questo articolo, racconteremo la sua storia.
Il contesto storico e calcistico
Il 1973 è l’anno in Italia e nel globo della crisi energetica, con un aumento significativo del prezzo del greggio, e politiche di austerità all’orizzonte per la comunità intera. Gli anni ‘70, spesso citati a sproposito o anche con riconoscenza, restano una miscela di piombo, sangue e nuove attese: tra piazze gremite, repressioni più o meno esplicite, sante o laiche alleanze (Belinguer propone sulla rivista Rinascita il celebre “compromesso storico”) e battaglie autentiche o invece retoriche, in quella stagione è andata a configurarsi con più nitidezza l’identità di tutti noi.
Nel mondo, gli Stati Uniti si ritirano dall’ecatombe del Vietnam, mentre in Cile, un certo Pinochet si insedierà l’11 settembre dello stesso anno, con la benedizione di Washington e dintorni, e con un disegno per gli anni successivi alquanto drammatico; nel nostro Bel Paese, invece, il quasi eterno Andreotti lascia il posto a Rumor, mentre gli scontri tra la sinistra extra-parlamentare e le forze dell’ordine continuano a costare feriti e anche decessi (il 23 febbraio viene ferito gravemente a Milano Roberto Franceschi, militante del Movimento studentesco: una settimana dopo morirà). Nell’universo della cultura popolare e dell’arte, invece, Patty Pravo si rende in qualche modo immortale a Sanremo con il suo “Pazza idea”, mentre Fellini si conferma certamente un genio (compreso o no, non è importante) con il film “Amarcord”, riflettendo con brillante e spiazzante umorismo intorno alla mediocrità piccolo-borghese passata e presente.
È un mondo di crisi e trasformazioni, insomma, e anche il calcio a suo modo ne risente. In Europa l’Ajax di Cruijff (ora pronto a una nuova avventura in blaugrana) ha incantato e disegnato certamente traiettorie nuove per il nostro sport: gli olandesi si presentano come una scuola innovativa, o anzi come l’esito più progressivo della storia del football, attirando studiosi accorti o imitatori più o meno sprovveduti. Grandezza e arroganza camminano spesso a braccetto tra gli orange e i loro ammiratori, generando venerazione o sarcasmo, adulazione o fastidio: intorno ai nuovi dettami del calcio vengono a configurarsi fazioni opposte, e anche in Italia possiamo averne qualche assaggio, tra le simpatie di Fulvio Bernardini e le stoccate invece di Gianni Brera al nuovo universale Verbo.
In campionato, con la conclusione dell’epopea milanese degli anni ‘60, la Juventus di Boniperti si avvia ad essere sempre più padrona: dopo una stagione di costruzione sotto la guida di Armando Picchi (morirà, in realtà, ancor prima di giugno, a causa di un male terribile), la squadra torinese vince per ben due volte consecutive (‘71-72 e ‘72-’73) la serie A, con Vycpalek allenatore, e un futuro imminente di gloria. Il club bianconero sa essere impositivo e pragmatico, odiato, ma anche vincente. Le polemiche non mancano (nel ‘72 un certo Gianni Rivera ha tuonato contro l’intera classe arbitrale), ma in fondo ogni potere si nutre di intelligenza, forza e non sempre limpida scaltrezza: le ombre sono la scia più o meno accettabile di un’egemonia che, effettivamente, sta radicandosi e saprà evolversi.
Le antagoniste più classiche della Juve, del resto, faticano: il Milan di Rocco sembra ancora competitivo, ma non riesce più a primeggiare, mentre l’Inter (comunque finalista di Coppa Campioni nel 1972) pare essere in una fase di transizione. Da qui, allora, la possibilità per nuove squadre di salire all’Olimpo del football, contendendo lo scettro alla Vecchia Signora: alcune ci riusciranno (Lazio e, dopo parecchio tempo, il Torino), mentre altre sapranno comunque ritagliarsi uno spazio più che dignitoso nella storia (Perugia e Vicenza). Di sicuro, gli anni ‘70 calcistici oscillano costantemente tra la tendenza a un accentramento assoluto (quello juventino) e l’apertura della competizione a nuovi duellanti: se qualcuno apparecchia il dominio, per gli altri è bene industriarsi per contrastarlo.
L’approdo di Vinicio a Napoli
Nella stagione 1972-1973, il Napoli di Chiappella ha concluso al nono posto, segnando appena diciotto reti, ma confermando una buona tenuta difensiva: insomma, il club partenopeo sembra ben conformarsi alle idee più tradizionali del nostro calcio, ma in fondo è lecito attendersi qualcosa di più. Il presidente Ferlaino decide di cambiare, e la svolta non è da poco: in panchina viene chiamato il brasiliano Luis Vinicio, e la scelta regalerà certamente attese di rinascita.
L’approdo è, in realtà, un significativo ritorno: “O’ lione” (così era stato soprannominato Vinicio dalla tifoseria partenopea) si era dimostrato un attaccante prolifico ed efficace nel capoluogo campano nel corso degli anni ‘50, confermandosi un fondo un brasiliano atipico, molto più propenso alla sostanza che ai fronzoli. In Campania Vinicio segnerà 69 goal, prima di girovagare tra Brasile (per poco tempo) e Italia alla ricerca di un rendimento alto e costante, che troverà in provincia, a Vicenza (nel ‘65-’66 vincerà il titolo di capocannoniere con 25 reti segnate); tra i due periodi biancorossi, una breve parentesi all’Inter di Helenio Herrera, senza però ottenere la fiducia dell’eccentrico ed egocentrico Mago.
In panchina Vincio si mette in mostra a Brindisi, prima della chiamata di Ferlaino a Napoli e del sogno di una nuova ascesa. Il calciomercato partenopeo nell’estate ‘73 è pratico e senza particolari scintille: tra gli altri, arrivano gli attaccanti Braglia (dal Foggia) e Sergio Clerici (dalla Fiorentina), nell’augurio che si possa così migliorare un non eccellente bottino di reti. In tutto ciò, va detto, influiscono anche le nuove linee della politica calcistica a partire dagli anni ‘60: dopo il disastro contro la Corea del Nord nel ‘66, la Federazione ha optato per la chiusura agli stranieri, riportando il football nostrano a un’antica autarchia.
Al di là di un mercato non troppo sontuoso, sono però le idee di Vinicio ad apparire in una certa misura rivoluzionarie: in un contesto in cui va a radicarsi sempre più l’identità del cosiddetto calcio all’italiana, a Napoli si inizia a parlare di zona, pressing e fuorigioco, affidandosi così alle avanguardie dell’universo fiammingo. In realtà, l’esperimento non è del tutto nuovo: a inizio anni ‘60 Amaral ci aveva provato alla Juventus, ma senza grande successo, mentre il football palleggiato e corale della Ternana di Viciani nei primissimi anni ‘70 aveva attirato estimatori e appassionati. Con O’Lione ci si riprova, nella speranza che il gioco così possa rinnovarsi, costruendo strade nuove.
La rosa, per quanto non straordinaria, ha comunque elementi di qualità buona: in porta Pietro Carmignani, arrivato Napoli nello scambio con un certo Zoff, entra nel cuore dei tifosi, nonostante alcuni interventi non sempre ortodossi e precisi; tra i difensori si distingue Bruscolotti che, secondo Ferlaino, «come marcatore puro è tra i primi cinque d’Italia», mentre a centrocampo Antonio Juliano regala geometrie e qualità, affiancato da gregari di corsa e polmoni, quali Andrea Orlandini (soprannominato “Birillo”) ed Esposito; in attacco, infine, Giorgio Braglia, nel ruolo di ala, segnerà 24 goal in tre stagioni, mentre Sergio Clerici, nonostante la non più tenera età, saprà dimostrarsi un centravanti ancora decisamente affidabile.
In quell’anno, la squadra di Vinicio dimostra di saper gettare buone basi, seminando così i presupposti per un raccolto prossimo magari migliore: il club si piazza al terzo posto, nel campionato vinto dalla sorprendente Lazio di Maestrelli, nella speranza, chissà, di poter portare presto lo scudetto ancora più a sud.
Lo scudetto sfiorato
In estate, un nome di peso giunge a scaldare le domeniche partenopee: l’ex mastino della Grande Inter, Tarcisio Burgnich, si mette in gioco a Napoli all’inseguimento di nuovi traguardi, provando a donarsi una giovinezza ulteriore. Vinicio ha in mente, per l’esperto difensore, qualcosa di differente, rispetto al passato: pur partendo ufficialmente da libero, la “Roccia” avrà la possibilità di avanzare in linea con la difesa, permettendo ad Antonio La Palma, lo stopper della squadra, di scivolare sulla sinistra, andando così a creare superiorità a centrocampo. La squadra gioca corta, con i reparti ravvicinati: il catenaccio sembra lasciare il posto a un calcio con ruoli meno definiti, movimenti meno statici e sovrapposizioni in fase offensiva. Nel difendere, la linea si alza, utilizzando il fuorigioco come arma efficace. “O’ Lione” intende così avviare il suo rovesciamento delle gerarchie consolidate nella penisola: con qualche spruzzata esterofila, ed idee indubbiamente innovative, gli Azzurri ora aspirano a realizzare una nuova utopia, quella di un football più armonico e in fondo bello, ma non si sa quanto davvero in grado di contrastare una tradizione, nonostante tutto, viva e autentica.
I risultati, però, sono altalenanti e poco entusiasmanti: nelle prime nove giornate arrivano 6 pareggi e solo tre vittorie, e non è forse abbastanza per i nuovi sogni rivoluzionari. Il 15 dicembre, poi, a Napoli arriva la Juve, e forse potrebbe essere la giornata giusta per provare a spodestare l’Ancient Regime. Le ghigliottine, però, devono attendere, e la Vecchia Signora sicuramente non brama ritagliarsi il ruolo di Maria Antonietta del football: in quel pomeriggio i campani di reti ne segnano due, ma la Juventus addirittura 6, ed è una batosta di proporzioni preoccupanti. La squadra di Parola segna in contropiede, sfruttando gli spazi lasciati aperti dalla temeraria difesa azzurra, e lasciando in Vinicio, e un po’ in tutti, non poche perplessità. Va bene cercare strade nuove, è anzi doveroso, ma alla fine l’intelligenza ben si traduce anche nella capacità di lettura, e nell’incontro il Napoli si è dimostrato davvero sprovveduto. Gianni Brera, il più italianista degli italianisti, dirà:
la conclamata innovazione del tecnico brasiliano si rifà al trucchetto ormai quasi secolare del fuorigioco: la squadra si riduce curiosamente su due-tre linee l’una a ridosso dell’altra: davanti al portiere napoletano c’è sempre una piazza d’armi del tutto sgombra: rilanciando per tempo in quella, si va beati al gol. E infatti l’incontro Napoli-Juventus si conclude con un mortificante 2 a 6 ai danni dei padroni di casa. Vinicio ne rimane più di tutti sgomento, con leale candore fa presente ai cronisti di essere tuttora troppo giovane: per questo gli manca la necessaria esperienza. Naturalmente i critici che avevano da ridire sul trucchetto del fuorigioco sghignettano un poco, ma i loro avversari di tempra qualunquista li tacciano di gretto misoneismo.
Al di là di tutto, la sconfitta brucia e alcune valutazioni sono necessarie: nelle settimane successive i partenopei si mostrano maggiormente accorti in difesa e restano in piena corsa, nonostante una continuità non eccelsa, per la vittoria del tricolore. Il 6 aprile del ‘75 si gioca a Torino, ovviamente contro la Juve, ed è una sfida decisiva. Tra le gradinate sono presenti 70000 tifosi con ben 20000 napoletani: per il radiocronista Enrico Ameri «si tratta della più grande scampagnata calcistica che le cronache sportive ricordino». L’impressione è che per il Meridione (e per Napoli soprattutto) possa essere quella una giornata di rivalsa: espugnare Torino, la capitale della Fiat, vorrebbe dire anche rivendicare, almeno nel calcio, un ruolo di traino e avanguardia. Forse è possibile spiegare così l’entusiasmo intorno a quella partita: i campani si giocano lo scudetto, che sarebbe il primo, ma in campo va anche l’orgoglio di chi vuole a tutti costi sentirsi finalmente protagonista della storia.
Cenerentola, però, torna a casa a mezzanotte, e il fiabesco spesso si scontra con la fatica del reale. Quella domenica di primavera i torinesi vanno in vantaggio con Causio, mentre il pareggio lo segna Juliano nella ripresa. Il regista dei partenopei ci prova anche con un tiro da fuori area, ma Zoff salva miracolosamente. Al minuto 88, poi, ecco la beffa: su corner battuto da Causio, Cuccureddu colpisce il palo, dopo un’uscita abbastanza goffa di Carmignani, e Altafini ribatte in rete il pallone che regala alla Juventus i due punti. L’amarezza è grande, immensa. Il Napoli conclude l’annata al secondo posto e con l’attacco migliore: è tanto, tantissimo, ma anche troppo poco. La qualificazione alla Uefa suona quasi come una beffa e l’incanto sembra essersi frantumato, ancora una volta, sotto i colpi della restaurazione.
Vincio ci riprova la stagione successiva, ma le cose non vanno bene: ancor prima della conclusione, il tecnico lascia la panchina (i campani vinceranno poi la finale di Coppa Italia), lasciando il sapore poco dolce dell’incompiutezza: qualcosa di importante è stato fatto, non ci sono dubbi, ma non è bastato, e ora tutto pare scivolare ancora tra le sabbie dell’ordinarietà.
L’avventura laziale di Vinicio
Con la conclusione dell’avventura napoletana Vinicio ci riprova, e questa volta la chiamata arriva da Roma. La Lazio ha appena concluso una stagione di fatiche, salvandosi in extremis e tra malumori diffusi; Maestrelli, così, ha scelto di lasciare gli abiti di allenatore, vestendo quelli di Direttore tecnico, nella speranza di rifondare da dietro la scrivania una società quasi in frantumi. Per la panchina, l’artefice dell’impresa laziale del’ 74 pensa proprio a Vinicio, nella convinzione che, tra calcio a zona e spettacolo, il brasiliano possa contribuire con decisione alla rigenerazione.
La rosa può contare ancora su Pulici, Wilson, D’Amico e Re Cecconi, oltre al talento emergente di Giordano, Manfredonia e Agostinelli. Al di là dei nomi, però, è sulle idee che Vinicio intende avviare la ricostruzione. In un’intervista al Guerin sportivo, nel luglio del ‘76, il neo-allenatore si esprime così:
Voglio giocatori che grazie ad un lavoro serrato aumentino la possibilità di sopportare la fatica e accelerino i tempi di recupero. Sarà una Lazio d’attacco, perché io credo che nel calcio giocato si debba prima offendere gli altri, non venire offesi. Insomma, nelle mie squadre non si bada a distruggere le iniziative degli altri, ma creare. Ripartirò da zero e massima disciplina per tutti. Chi supererà lo stressante lavoro di preparazione a Pievepelago sarà già a buon punto. Per quanto riguarda i rinforzi, dipende dalle possibilità del mercato, per il rilancio servirebbero una punta ed un difensore….
Insomma, per tornare tra i nobili della massima serie, occorre ripartire dall’attacco e dal lavoro; per poter esprimere il football di marchio olandese è necessaria la massima collaborazione di ogni componente della rosa, in grado di disciplinarsi per il collettivo, e anche di superare le interpretazioni più classiche del ruolo. In questo, certamente, le posizioni di Vinicio precorrono, in una certa misura, le ossessioni sacchiane, o anche la ricerca estenuante di una sinfonia perfetta tipica del cosiddetto sarissmo o anche, se pur con principi spesso molto differenti, del più difensivo contismo.
Quell’annata la Lazio mostra in effetti un buon gioco, e i risultati sono quantomeno in linea con le aspettative: la speranza di poter aprire un ciclo vincente pare radicarsi su basi solide. I problemi, però, non mancano, e alla lunga si profilano come sempre più scomodi. In primo luogo, l’ombra del passato glorioso e la presenza di Maestrelli non regalano tranquillità al tecnico brasiliano; in seconda battuta, poi, il rapporto con la stampa non è tra i migliori. Nell’intervista già citata, del resto, Vinicio aveva espresso le sue intenzioni:
Nell’ultima stagione al Napoli hanno fatto troppi pettegolezzi su di me, nemmeno in tutta la mia vita calcistica ero stato tanto chiacchierato. A Roma cambierò metodo. I giornalisti dovranno rivolgersi soprattutto a Maestrelli, ogni lunedì sarò irreperibile, parlerò solo su questioni tecniche inerenti la mia squadra.
Il clima, insomma, non è sempre dei migliori, e alcuni tragici fatti vanno ad aggravarlo definitivamente: la morte per malattia di Maestrelli e quella oltre l’assurdo di Re Cecconi vanno a scuotere un ambiente già precario. E così, nonostante il buon piazzamento conquistato, la nuova stagione parte tra numerose e sempre più insormontabili incertezze: nel marzo del’78, così, Vinicio lascia la panchina seminando ancora una volta rimpianti.
L’utopia è stata tracciata, ma non realizzata: le esigenze della realtà, e ambienti di certo ingombranti, si sono imposti sull’assolutismo del tecnico, sulla volontà ostinata di imporre un qualcosa, al di là di contesti e radici. Un segno di grandezza, probabilmente, o anche di radicale protagonismo: è la geniale di mania di chi, elogiando il collettivo e l’armonia, desidera anche, e non troppo celatamente, idolatrare se stesso. Altri porteranno avanti il disegno, con il supporto di portafogli più pieni e qualche olandese in più: la storia ha bisogno anche di loro, senza dubbio, ma poi, diciamolo, quel vecchio e vituperato “calcio all’antica” è comunque abile nel mostrare le sue mai troppo sbiadite ragioni.