“…allora tu Giovannino, che cosa gli hai detto?” (Aldo), “Le hai detto, mmmm, femminile!” (Giacomo). Un flash storico della commedia italiana. Ci stiamo riferendo ad uno dei momenti chiave del film “Chiedimi se sono felice”. Forse il momento più alto della produzione cinematografica del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Battute in serie che sono entrate a gamba tesa nel modo corrente di esprimerci. Eh si, l’italiano è importante. Lo sanno bene gli appassionati di calcio, coloro che hanno vissuto gli anni ruggenti della radio sportiva, quando il calcio per immagini era invisibile o appena palpabile attraverso le centellinate foto dei quotidiani. Quando il silenzio dei condomini, alle prese con il dormiveglia dovuto al lauto pasto, era squarciato dall’urlo mitologico: “scusa Ameri”. Era un sussulto. Gioia o sgomento. Eravamo tutti lì, aggrappati a queste magiche scatole di legno, radica, plastica, dove le voci di giorno in giorno diventavano sempre più amiche, sempre più riconoscibili. Si faceva incetta di vocaboli, espressioni che venivano poi ripetute o applicate ad hoc nel lessico quotidiano. Siamo cresciuti con la sfera che faceva la barba al palo oppure con la palla che accarezzava la traversa o ancora con il tiro a filo d’erba. Espressioni poetiche che andavano dal ripetuto gesto di un artigiano alla traccia gentile di una carezza che si può dare a un bambino o alla persona amata. Erano i tempi degli spettatori 40mila circa (ahinoi!), della conoscenza della qualità dei campi di calcio tramite il terreno gibboso (anni passati a setacciare lo Zingarelli), della ventilazione inapprezzabile, fino al famigerato ancorché enigmatico in campo per destinazione, per il quale ci sono voluti alcuni decenni di ricerche per decifrarne l’intrinseco significato. Sembra quasi un’altra lingua, colma di quelle espressioni che oggi hanno lasciato il passo ad un vocabolario più asciutto e meno aulico. Erano i tempi in cui il compianto Enzo Stinchelli intervistava un giovane Adriano Celentano durante la Coppa Davis Italia-Australia (26.9.1976). “Un passante, cos’è?” (Stinchelli), “E’ uno che cammina” (Celentano). L’ironia imperversava, seppure tra le strette maglie di una televisione di stato alla quale non potevi certo regalare nequizie. La pena era severissima. Con l’aggettivo sbagliato, con il sostantivo contrario, la deportazione televisiva era certa. Si rende necessario spiegare ai più giovani quel che successe nel pomeriggio del 22 gennaio 1984 durante “Blitz”, un contenitore domenicale che andava in diretta su Rai2. Furono inaugurate due posizioni che avrebbero cambiato per sempre il mondo ingessato e patinato della televisione. La bestemmia dell’attore Leopoldo Mastelloni e la frase cult “è il bello della diretta” coniata dal conduttore Gianni Minà. Quello che successe dopo l’epiteto è storia. Mastelloni fu epurato ad libitum da tutte le televisioni pubbliche. Stella Pende, che era la conduttrice di una delle rubriche della trasmissione, fu esiliata, rea di non aver reagito prontamente allo strafalcione. Ritornò addirittura dopo 8 anni con il programma “Le ragioni del cuore” (1992). Blitz invece, nonostante un triennio di successi e di ottimi ascolti e critica, venne cancellato. Nell’Italia cattolica e bigotta, con il misfatto accaduto per giunta il settimo giorno, seguirono anche strascichi giudiziari. L’attore napoletano che fu denunciato, salvo poi venire assolto dal pretore di Viareggio Angelo Maestri, perché “il fatto non costituisce reato” (25 giugno 1985).
Una sentenza da tenere a mente.
Tra il calcio ascoltato e quello guardato attraverso le tv sono passati due grandissimi protagonisti. Trascorreremo tutta la vita a chiederci se, in mancanza di alcuni elementi, questi personaggi sarebbero diventati altrettanto storici. Sono Sandro Ciotti e Giovanni Trapattoni. Ciotti, grande cultore di musica e puntuale osservatore del Festival di Sanremo, sarebbe diventato tale senza quella voce unica?
Il Giuanin nazionale sarebbe diventata una star di youtube se il centrocampista del Bayern Monaco Thomas Strunz (che in italiano gergale è tutt’altra cosa), si fosse chiamato Mayer?
Probabilmente sì, data la loro immensa statura.
Oggi che il linguaggio si è trasformato (in peggio) seguendo anche i dettami della rete, la nuova inquisizione, non avendo molto altro da fare, si è lanciata, non senza retorica, nella caccia alla bestemmia.
Complice il silenzio degli stadi, i sospiri dei calciatori vengono analizzati e sviscerati da questo nuovo tribunale che commina sanzioni in danaro o, nel peggiore dei casi, squalifica.
Che sia ben chiaro, condanniamo quelle espressioni crude, fuori luogo, che non fanno parte del momento sportivo bensì di un volgare intercalare. Ma da qui a perseguire senza voler interpretare, in uno stato laico e di diritto, alcune manifestazioni dovute a frustrazione, rabbia, scontento, ce ne corre. E la distorsione è ancora più grave se si combina il “dagli al blasfemo” con l’ecumenico candore con il quale gli ufficiali di gara tutti fanno finta di non sentire dirigenti sportivi che, seduti tra tribune vuote, sacramentano contro gli stessi arbitri o gli avversari di turno, inscenando il più delle volte, tristi e documentati teatrini.
In buona sostanza, stride in tutto questo non tanto la volontà di reprimere, quanto quella di voler dimostrare sacralità o, peggio, voler far diventare il calcio uno sport di educande. Sui terreni di gioco, da più di cento anni, si sono svilite intere famiglie. Mamme, sorelle, tutte in bella mostra sulle consolari più frequentate condite da una serie infinita di calci, gomitate, sputi. Ora si punta più in alto. Il tentativo di mettere in riga gli esternatori del peccato originale, che di peccato hanno forse quello di essere degli stolti, ma sicuramente non quelli di avere un sentimento anti-religioso. È appena il caso di ricordare che Mastelloni si scusò con immediatezza, riconoscendo il linguaggio criticabile ma “assolutamente in uso nel parlare corrente”.
Mentre ora, questi impettiti giudicandi, passano oltre anche su ciò che ha tracciato la giurisprudenza.
E se ciò non bastasse amiamo ricordare l’espressione (perché quando ci vuole ci vuole) usata in radiocronaca da Sandro Ciotti al mondiale americano 1994 al gol di Roberto Baggio in Italia-Nigeria: “Santo Dio, era ora!”.
È successo e succede tutto questo, in un’onda che risucchia al largo tutto quello che sembrava potesse diventare un’evoluzione del linguaggio con il parallelo progresso delle valutazioni dello stesso, il che non significa perdono tout court.
Ma si capisce, pur senza adeguarsi, che questi smaniosi freni preventivi sono i temuti figli del famoso detto: “ferì più la lingua che la spada”.