Nella sua estate turbolenta e discussa, l’Inter ha perso anche Lele Oriali: l’ex giocatore nerazzurro si è allontanato dalla società, non trovando i giusti stimoli per proseguire la sua avventura a Milano. Una bandiera ha lasciato in silenzio, così come ha sempre vissuto da calciatore e poi da dirigente: senza eccessi mediatici, ma anzi con il coraggio dell’umiltà e del sacrificio. Un campione nell’ombra, un protagonista dell’interismo con poco interesse per i protagonismi facili.
L’INTER A INIZIO ANNI ’70
1 giugno 1967: l’Inter gioca a Mantova l’ultima partita di campionato. Per la squadra di Helenio Herrera, sconfitta pochi giorni prima in Coppa Campioni contro il Celtic, è l’ultima occasione per portare a casa, per l’ennesima volta in pochi anni, un trofeo importante. L’impegno parrebbe essere abbordabile, e invece accade l’imponderabile: i nerazzurri perdono la partita a causa di un errore clamoroso del portiere Sarti, facendosi così superare dalla Juventus (dopo andrà a giocare poco dopo proprio Sarti) ad un passo dal traguardo. È una delusione infinita e non prevista: l’imbattibile formazione del Mago argentino si mostra vulnerabile, maledettamente umana, come tutti. L’anno successivo l’Inter viene risucchiata addirittura quasi a metà classifica: Herrera lascia, Angelo Moratti, ormai troppo stanco e deluso, pure. Si conclude così una pagina epica della storia calcistica italiana e mondiale.
Al posto del leggendario patron dell’Inter subentra Fraizzoli, e il compito della ricostruzione non è dei più semplici. Dopo un ritorno in panchina di Alfredo Foni, tecnico del primo scudetto nerazzurro del dopoguerra (ne abbiamo parlato qui https://www.ilcalcioquotidiano.it/inter-foni-scudetto/), il nuovo presidente punta su Heriberto Herrera, l’istrionico e ben preparato allenatore alla guida della Juventus proprio nel 1967. L’inizio è certamente promettente: nella stagione 1969-1970 i nerazzurri recuperano credibilità e i piani alti della classifica. Lo scudetto viene vinto dal Cagliari di Riva e Scopigno, ma il sentore è che anche la Milano nerazzurra (il Milan appena un anno prima ha vinto la sua seconda Coppa Campioni) possa tornare a essere grande. In realtà, qualcosa si rompe in fretta e irrimediabilmente: a inizio stagione l’Inter lascia troppi punti per strada, e dopo una pesante sconfitta nel derby contro i cugini rossoneri, Heriberto Herrera viene sollevato dall’incarico. Al suo posto, è promosso in prima squadra Gianni Invernizzi, allenatore della primavera; in Lombardia si ritiene che la soluzione possa essere solo temporanea e di emergenza, ma si rivelerà invece davvero vincente. Nonostante un ritardo accumulato in classifica di sette punti, infatti, i nerazzurri si renderanno protagonisti di una straordinaria rimonta, laureandosi campioni d’Italia. Si pensa possa essere l’inizio di un nuovo ciclo vincente; in realtà, la Beneamata vivrà anni di rincorsa e fatica, senza riuscire per molto tempo ad assaporare il piacere insostituibile della vetta. L’Inter, poi, si trova a vincere in un anno che, per i colori nerazzurri, non è comunque avaro di lacrime: pochi mesi prima Armando Picchi, colonna portante della squadra di Herrera, ha dovuto lasciare il calcio e la guida della prima promettente Juventus di Boniperti, per tentare di sconfiggere un male che, purtroppo, si rivelerà ancora più corazzato e spietato di lui. Un addio doloroso, una pennellata di tragicità e nostalgia a rendere più sbiaditi i colori della nuova felicità interista. Si sa, però, che ogni morte contiene in sé il principio di una nuova nascita, e così in fondo accade anche nel calcio, di certo non estraneo alle logiche senza tempo della vita. Se un’antica gloria nerazzurra ha lasciato per sempre il mondo, si intravede comunque il bagliore, forse timido e non invasivo, di una futura stella. Nulla di esplosivo, va detto: non si tratta della luce accecante di una genialità indiscutibile e quasi trascendente. Al contrario, sono i passi quasi a lato e celati di chi un posto nell’universo del calcio deve conquistarselo con il sudore e la corsa, non potendo contare sul carattere forse messianico o profetico del fuoriclasse. Il 7 febbraio del 1971 esordisce nella partita Roma-Inter Lele Oriali: il giovanotto non diventerà probabilmente una leggenda universale, ma sta iniziando a seminare la giusta fiducia, in vista di un lungo e duraturo amore, vissuto quasi sempre lontano dai fari più abbaglianti della notorietà.
UNA VITA DA MEDIANO
Gabriele Oriali (per tutti Lele) nasce a Como il 25 novembre del 1952; la sua famiglia non è certo benestante, e da fanciullo il buon Lele si arrabatta come garzone, nell’esigenza di portare a casa qualche spicciolo. Con il pallone sembra avere una buona confidenza: inizia a distinguersi come terzino tra le file del Cusano Milanino, sognando un giorno di poter approdare alla Juventus, sua squadra del cuore. La storia degli uomini, però, sa essere molto ironica, ancor di più, poi, quando si tratta di amore; una chiamata importante a Oriali arriva, ma il prefisso non è quello torinese: l’Inter offre 100mila lire e per il tredicenne di Como è arrivata l’occasione della vita.
Dopo alcuni anni a imparare il mestiere nelle giovanili, arriva per Lele anche la prima convocazione tra i grandi. Diversi anni dopo, il futuro dirigente nerazzurro racconterà così quel momento:
eravamo a Roma, vigilia contro la Lazio, mi mettono in camera con Burgnich. A cena non dico una parola, per rispetto nei confronti degli anziani, che oggi non c’è più. Salgo alle 8 e mezzo,mi infilo a letto e spengo la luce, emozionatissimo. Quando entra Burgnich mi dice: “Dormi già?”. Gli spiego che non volevo disturbarlo e allora mi mette a mio agio, chiedendomi della mia famiglia. Lui e Facchetti mi hanno aiutato più di tutti.
Lele Oriali è l’emblema di chi sempre riesce a entrare in punta di piedi, rivelandosi però insostituibile. E’ il silenzioso ed educato compagno, quello così rispettoso da risultare talvolta invisibile, e però profondamente vero. Quel 7 febbraio, come detto, il giovane nerazzurro fa il suo esordio a Roma, con la forza e l’umiltà di chi sa mettersi in ascolto dei saggi, attendendo un’occasione buona, quella dove è possibile pronunciare qualcosa di proprio. Quella stagione Lele giocherà per poche briciole di tempo: verrà provato anche terzino di fascia, ma molto presto verrà consacrato qualche metro più avanti e al centro. Un uomo di corsa e rincorsa, proprio come l’Inter degli anni ‘70, sempre all’affannosa ricerca di ambizioni sopite. La squadra milanese è però aleatoria e incostante, mentre Oriali fa della solidità e della lotta il suo marchio di fabbrica; l’Inter sa essere capricciosa e sorniona, mentre “Piper” (così lo aveva soprannominato Brera, riferendosi alla sua vivacità) è dinamico e laborioso: ha fatto del sacrificio il suo genio, e non intende privarsene.
Un anno dopo la vittoria in campionato, l’Inter si trova a giocare la finale di Coppa Campioni contro l’incantevole e leggendario Ajax di Cruijff; tre anni prima la squadra olandese era stata sconfitta in finale dall’italianissimo Milan di Nereo Rocco, ma ora le cose sono mutate assai. Quella notte il compito ingrato di marcare a uomo il fuoriclasse d’Olanda spetta proprio a Lele, e l’estrema difficoltà di quella missione andrà a sedimentarsi negli anni.
Il più difficile [degli avversari] Cruijff. Avevo 19 anni, e lui era al massimo della sa carriera. Finale di Coppa Campioni. Fece due gol e noi perdemmo due a zero. Poi ricordo Jonhston, l’ala del Celtic, e Dzaijc l’ala sinistra della Jugoslavia. E poi Maradona. In Italia, invece, Rivera, Causio, Claudio Sala e Antognoni.
Un compito ingrato, talvolta sporco, di sicuro vitale: il talento di Oriali consiste nel limitare primariamente quello degli altri, nel non lasciarlo pienamente esprimere. Gli “altri”, poi, sono i migliori: coloro che godono di una sovrabbondanza di classe, quella genialità che fa innamorare o dannare, ma che certamente del football costituisce l’essenza più universale. Se non esistesse, però, la forza del negativo, il calcio medesimo sarebbe condannato all’inerzia: vi può essere bellezza solo nella lotta, e pertanto tramite il freno costante di chi sa “sporcare”, al punto da rendere una partita viva, reale. “Piper” Oriali il genio immenso può contemplarlo, ammirarlo, contrastarlo; se non riesce nella marcatura asfissiante, la battaglia può concludersi a brindisi per gli avversari; se invece la tattica, la corsa e la forza del più mediano dei mediani italiani ha la meglio, ecco che un intero popolo può portarlo in trionfo, riconoscendo il valore di chi sa essere determinante senza aggrapparsi ad applausi gratuiti.
Il pubblico di Lele si innamora: ad essere premiato è il sacrificio, certo, ma non si pensi di avere qui a che fare con un classico corridore dagli ottimi polmoni, ma davvero privo di tecnica o fiuto del goal. Al contrario, Oriali segna, e non reti irrilevanti: Juventus e Milan sono di frequente le vittime predilette, e questo al popolo nerazzurro non può non piacere. Storico sarà il derby del 25 ottobre 1981: Oriali realizza il goal della vittoria, subendo anche un colpo sul volto (non si sa quanto involontario) dell’avversario Tassotti. Una vita spesa, insomma, tra lotta, pedate, ma anche con l’stinto dell’incursione. “Una vita da mediano”, canterà qualcuno, come è fin troppo noto: è di certo vero, ma a patto di non sminuire la flessibilità e anche quella completezza propria di chi sa di dover imparare sempre per potersi meritare un posto d’onore a tavola.
IL SECONDO SCUDETTO
Nel corso degli anni ‘70, come si è detto, l’Inter non riesce a lottare per i traguardi massimi: è la Juventus di Boniperti la principale potenza del Paese, con Torino, Lazio, Milan a far sì che l’egemonia non divenga assoluta. I giocatori sul Naviglio passano, gli allenatori passano; anche il Mago Herrera viene richiamato per qualche tempo, ma è costretto a lasciare a causa di problemi cardiaci, che poi verranno fortunatamente risolti.
In un clima di grigiore, il lega tra Oriali e Milano si consolida, ma rischia anche di infrangersi definitivamente a un passo da quella che sarà un’attesa rinascita. Nel 1978 l’Inter ha appena vinto una coppa Italia, ma Sandro Mazzola (da poco passato al ruolo di dirigente) decide di cedere Piper all’Ascoli. Per il giocatore è un pugno nello stomaco, al punto da affermare che anzi preferirebbe lasciare i campi di gioco; l’accordo salta, per l’amarezza dell’ingratitudine c’è ancora tempo.
L’Inter della ricostruzione è allenata dal 1977 da Eugenio Bersellini. Dopo il successo in coppa nazionale, la squadra pone gradualmente le fondamenta per traguardi più gustosi; di anni ne occorrono tre, ma la pazienza spesso paga nel miglior modo. Nella stagione 1979-1980 i nerazzurri del “Sergente di ferro (così era soprannominato Bersellini a causa della sua severità e della durezza degli allenamenti) dominano in campionato fin dalla prima giornata e tornano a laurearsi campioni d’Italia. L’Inter è un eccellente mix di talento e muscoli, estro e sacrificio: alla creatività ribelle di Beccalossi (tenuto sotto controllo dal Sergente, a causa di una condizione fisica non sempre perfetta: la gola può essere nemica del campo!), o alle reti preziosissime di Spillo Altobelli va a sommarsi la grinta e il sudore di Marini, Caso e, appunto, il nostro Oriali. Lele è ormai un pezzo insostituibile della scacchiera; la tenacia, la fatica sono impressi nella sua storia. Oriali dimostra ormai definitivamente di essere uno dei più squisiti prodotti del vivaio nerazzurro, in un’epoca in cui, a causa delle chiusure delle frontiere dal 1966, i campioni è necessario plasmarli con la costanza e la creatività propria dei migliori artigiani.
Proprio nel 1980 (è anche l’anno dello scandalo calcioscommesse) qualcosa muta per sempre: gli stranieri tornano in Italia e il calcio (complice anche la presenza sempre più massiccia delle televisioni) si avvia ad essere rivoluzionato. Mentre a Milano si sogna Platini (in realtà arriverà l’incostante Prohaska, soprannominato “Lumachina”, per ragioni non difficili da indovinare), la stella del Lele in nerazzurro inizia ad offuscarsi; nel 1983 Oriali lascia Milano destinazione Firenze, dove giocherà per quattro anni, concludendo la carriera da calciatore e avviandosi a lidi nuovi.
ORIALI DIRIGENTE
Oriali torna all’Inter da dirigente nel 1999, dopo una buona esperienza a Parma. La società dell’ambizioso e generoso Massimo Moratti mira a rivivere i fasti della gloriosa Inter paterna, senza però riuscire nell’intento. Nel famigerato ‘98 (è la stagione dello storico fallo Iuliano-Ronaldo) i nerazzurri hanno portato a Milano una Coppa Uefa, non riuscendo però a dare una giusta continuità nell’assai turbolenta (quattro allenatori: Simoni, Lucescu, Castellini, Hodgson) stagione successiva. Nel ‘99 insieme a Oriali arriva Lippi, nell’augurio che possa rivelarsi un nuovo Trapattoni, ma i risultati saranno assai deludenti. In veste da dirigente Oriali diviene consulente di mercato, responsabile dell’area tecnica e mediatore dei rapporti società-squadra. Le delusioni i primi tempi sono assai maggiori dei successi: oltre ad essere coinvolto nello “scandalo Recoba” (quello dei passaporti falsi: poi verrà fortunatamente prosciolto), il “Piper” assiste all’eterno psicodramma della squadra nerazzurra degli anni duemila: sconfitta 6-0 in un derby che rimarrà tra i risultati più bui della storia interista, uno scudetto scivolato via all’ultimo passo, in una sciagurata giornata di maggio. Anche le operazioni di mercato non donano sempre alla Beneamata i migliori frutti: Pirlo conoscerà la sua esplosione a Milano, ma non all’Inter, mentre sullo scambio Cannavaro-Carini si continuerà a fare a lungo molta (e giustificata) ironia. La ruota, però, inizia a girare e anche per Lele ci si avvia a vivere quel ciclo di trionfi non conosciuto da calciatore. Nel 2004 all’Inter arriva un giovane e ambizioso Mancini, e Oriali ha un ruolo determinante nel porre le solida fondamenta della gloria prossima: a Milano approdano giocatori del calibro di Figo (considerato ormai bolllito), Cambiasso, Maicon. Nel 2006, poi, come noto, esplode l’epopea amara di Calciopoli, e i nerazzurri non ne restano coinvolti; con la Juventus retrocessa in serie B, l’Inter acquista Ibrahimovic e Viera, candidandosi così al ruolo di favorita assoluta per lo scudetto. Il tricolore arriva, e sarà solo il primo di una serie importante; Mancini ne vince un paio sul campo (più uno a tavolino), prima di essere licenziato a causa dei risultati europei non accattivanti e di qualche esternazione mediatica di troppo. L’Inter vuole vincere anche nel continente e si affida così al geniale e provocatorio Jose Mourinho. La scommessa, come ampiamente noto, sarà vinta, e Oriali avrà un’importanza, ancora una volta, essenziale e nascosta: il volto commosso del Lele al Camp Nou (semifinale della Champions 2010), al fianco di Jose, è una delle istantanee immortali della storia nerazzurra: il suo “che bello”, più volte ripetuto, è uno dei segni più genuini di una sofferenza per troppo tempo protratta, e però anche maledettamente vera.
Oriali si troverà nuovamente a Milano per l’Inter fisica, talvolta operaia, ma decisamente devastante, di Antonio Conte, e i migliori risultati, ancora una volta, non tarderanno ad arrivare; con Lele, come sempre, in punta di piedi, ma anche costantemente presente. Un uomo dell’ombra: di quelli, però, che dalle ombre sanno ricavare tesori. Ora Piper non è più a Milano, ed è partito senza fare troppo rumore: in molti giurano che, molto presto, se ne sentirà la mancanza.