La stagione calcistica 2021-2022 sta per iniziare, e così anche le ambite e sognate notti in Europa. Per le squadre italiane, dopo anni di raccolti magri nel continente, può essere l’ennesima occasione di riscatto, magari sulla scia del trionfo della Nazionale in Europa. Critici e addetti ai lavori da sempre si dividono, discutono, a volte si azzuffano: qual è il segreto per conquistare il trono europeo?
La crisi dei club italiani
In conclusione dell’ultimo campionato, quello vinto dalla corazzata di Antonio Conte, Lele Adani si è espresso così:
l’Inter ha sicuramente meritato questo scudetto, ma un conto è vincere in Italia e un altro in Europa. In Italia basta una super squadra per vincere, come può averla oggi l’Inter o la juventus, ma in Champions no. Sono convinto che Inter o Juve arriverebbero terze o quarte già nella Champions league dei campionati, ovvero la Premier League. Se vuoi vincere in Europa, devi avere una filosofia di calcio più moderna e propositiva.
La disputa è antica ed ed eterna: il football italiano, incatenato alla sua tradizione di catenaccio e barricate, sarebbe sempre eccessivamente distante dalle “magnifiche sorti progressive dell’umanità” (qui https://www.ilcalcioquotidiano.it/adanisti-o-allegriani-la-disputa-sul-bel-giuoco/ abbiamo parlato di un antico episodio all’interno di questo dibattito). Un tempo eravamo brutti, ma vincenti: ora, si dice spesso, non ancora abbastanza belli, ma sempre meno gloriosi (almeno a livello di club). Le ragioni di ciò, in fondo, potrebbero essere molteplici, e in questa estate pandemica dovremmo averne avuto abbastanza sentore: mentre in Inghilterra (ma anche a Parigi) si ragiona su come depredare il calcio europeo, a suon di banconote e sceiccate, da noi si tenta di recuperare un po’ di spiccioli in tasca, lavorando su un mercato di avanzi e poche scintille. In altri termini, è abbastanza chiaro come ad essere cambiate profondamente, nel corso degli ultimi decenni, siano in primo luogo le condizioni economiche e sociali (il famigerato fatturato, direbbe qualcuno), e come tutto ciò generi un senso di disparità e un’affannosa corsa, probabilmente (ahimé) destinata a prolungarsi.
Nei famigerati e meravigliosi anni Novanta, le italiane in Europa hanno vinto quasi tutte: il Milan ha trionfato tra rivoluzione (Sacchi) e conservazione (Capello); la Juventus ha vinto con l’italianismo moderno, e anche innovativo, di Marcello Lippi; il Parma di Scala e l’Inter di Gigi Simoni hanno portato in patria trofei con un calcio in fondo antico e individualità geniali. L’Italia poteva sedersi così al banchetto dei grandi, gustandosi buona parte del bottino, per poi magari discutere, a pancia piena e champagne sgolato, di idee e ideologia. Era il privilegio dei potenti (tali eravamo): ora si tende a trasformare l’idea “sbagliata”, invece, nella radice culturale e quasi antropologica della crisi (un club italiano non vince in Europa dal 2010), fingendo talvolta di rimuovere le trasformazioni sostanziali del contesto più generale.
Negli anni ‘10 del terzo millennio, poi, ancora qualche eccezionale acuto: la finale tricolore in Champions nel 2003, il doppio trionfo in pochi anni per il Milan di Ancelotti, per concludere, poi, con la gloriosa Inter di Mourinho del 2010. Poi il buio, e poco altro. Questione di idee? Colpa di un calcio originariamente vetusto e poco al passo dei tempi?
La presunta colpa del difensivismo
Il Barcellona di Guardiola, di certo, ha segnato un’epoca: il calcio orizzontale, del recupero palla estremamente rapido e del pressing si è imposto come modello esemplare per molti. Un po’ lo abbiamo imitato, un po’ lo abbiamo scelto come fonte di ispirazione, non raramente lo abbiamo scimmiottato; ci siamo illusi, talvolta, di poterci quasi tingere di blaugrana senza avere fuoriclasse. Togliete al grande Barca Xavi, Iniesta e Messi e poi verifichiamo la qualità del concerto! Certo, generalizzare sarebbe sbagliato e semplicistico: l’Atalanta ha dimostrato, con un calcio intelligente, pianificato e di sicuro offensivo di poter competere a livelli alti, presentandosi come squadra dal profilo “internazionale”, come direbbero i tanti esterofili. Eppure un modello che certamente funziona, potendo contare meritoriamente sulla continuità progettuale e su pressioni non paragonabili a quelle delle cosiddette big, non deve fungere da pretesto per schematizzazioni eccessive, opinioni tagliate con l’accetta e processi non raramente sommari e improvvisati: ancor meno, poi, ha senso utilizzare la non replicabilità, in larga misura, dell’edificio bergamasco, per mettere sotto accusa un’intera storia, dipinta come quasi barbara o “medievale”. In un’intervista di qualche tempo (novembre 2020) così si era espresso Arrigo Sacchi:
Il nostro modo di vedere il calcio è riflesso della storia e della società di un Paese. In Italia, purtroppo, è dai tempi dei romani che non attacchiamo. Ogni tanto ci abbiamo anche provato, ma invano. Abbiamo praticato un calcio prudente, difensivo e tattico. La nostra forza è stata la tattica, più che la strategia: ci hanno detto che era sufficiente per vincere. Ad esempio, un club come la Juventus ripete sempre che vincere è l’unica cosa che conta. Volendo vincere a tutti i costi, rinnega tutti i valori della vita. Questo non ha permesso, in parte, al nostro calcio di evolversi. Io parlo di merito, di bellezza, di emozione, spettacolo e armonia. L’ottimismo non è vivere nel passato, ma nel futuro.
In questo passaggio c’è sicuramente anche del vero: il difensivismo ha permesso alla nostra nazione, soprattutto nel dopoguerra, di ricostruirsi un ruolo ambizioso e centrale nel panorama calcistico europeo e anche mondiale. È probabile, poi, che questo possa essersi tradotto, talvolta, in un eccesso di dogmatismo, nella cristallizzazione di una posizione rappresentata come eterna (gli italiani che sanno difendersi e giocano in contropiede, appunto). Sarebbe poi da vedere, in realtà, se dietro al cosiddetto “difensivismo” nostrano (sia che lo si elogi, come faceva Brera, sia che invece lo si accusi) non si celino in realtà posizioni molto più complesse, stratificate e nemmeno così eccezionali come, in prima battuta, si potrebbe credere: sarebbe però un discorso troppo articolato, che qui non è possibile approfondire.
C’è un però un qualcosa nel discorso sacchiano che pare non facilmente difendibile: la tradizione è letta implicitamente come una colpa, una macchia indelebile dalla quale sarebbe bene progressivamente liberarsi. Certo, la nostra Fede ci avrebbe portato anche vittorie, ma alla lunga avrebbe poi finito per rivelarsi insufficiente al cospetto di chi invece promuove spettacolo e attacco. È possibile che in parte sia così, non lo si vuole negare del tutto, ma è altrettanto probabile che si rischi in questo modo di non cogliere il punto centrale della questione: i nostri club, primariamente, non hanno una forza minimamente paragonabile a quella di un tempo.
Nell’ultimo decennio Milano ha conosciuto la sua crisi più profonda: Milan e Inter hanno visto cambiare società e transitare fin troppi allenatori e giocatori. Non è un caso, insomma, che il buio del calcio italico in Europa venga a coincidere con una delle fase storiche più delicate per le società meneghine. La Juventus, in fondo, è riuscita a tenere in piedi la competitività del movimento, potendo fare affidamento su una struttura societaria ben più solida e duratura: non è arrivata una Coppa, è vero, ma l’italianissimo Allegri ha permesso alla Vecchia Signora di piazzarsi seconda per ben due volte in Europa, alle spalle di corazzate più rifornite e potenti (Barcellona e Real Madrid). Poco più di un anno fa, poi, Antonio Conte ha guidato i nerazzurri in finale di Europa League, non riuscendo però a portarla a casa e alimentando nuovamente le polemiche intorno alla poca credibilità del nostro calcio. Opinione questa, peraltro, consolidatasi alla luce dell’ultima Champions nerazzurra: come noto, l’Inter ha terminato al quarto posto il girone, salutando in fretta la prima competizione per club continentale. Colpa del calcio troppo cinico, ma anche poco spettacolare, della compagine contiana?
In realtà, andando ad esaminare meglio la questione, si potrebbe rovesciare la posizione: la squadra nerazzurra ha salutato l’Europa, ancor prima di costruirsi quell’identità così rocciosa, ermetica, che poi l’ha contraddistinta. Come si ricorderà, infatti, l’Inter a inizio stagione ha provato a impostare un gioco offensivo, sostanzialmente propositivo: anche in Europa, così, l’undici di Conte si è trovato quasi sempre ad avere un possesso palla assai prolungato, impostando una fase di pressing non sempre così attenta a entrambe le fasi. Dopo qualche punto di troppo lasciato per strada e una qualificazione europea quasi compromessa, ecco la svolta: l’Inter si è abbassata di diversi metri, molto più frequentemente ha lasciato il pallino del gioco agli avversari, non disdegnando neppure una difesa di posizione abbastanza classica. Insomma, l’argomento utilizzato contro l’Inter contiana (vincente in Italia, ma non in Europa) rischia di essere capzioso, strumentale, ma poco attento alla reale evoluzione della stagione; ci si potrebbe anzi chiedere, al contrario, se la squadra nerazzurra contemplata nella parte conclusiva dell’anno non avrebbe potuto concludere in bel altro modo in Europa: col senno di poi, però, si sa, non si va da nessuna parte. La faccende dell’Inter di Conte, ad ogni modo, permettono di introdurre quella che è un quesito fondamentale, che meriterebbe di essere approfondito: davvero in Europa vincono gli attacchi? Il segreto esclusivo per trionfare nel continente e risollevare le sorti del calcio italiano è lo “spettacolo”?
In Europa si vince in molti modi
Ritorniamo alla fase conclusiva del decennio precedente. Nel 2010 l’Inter di Mourinho vince in Europa giocando un calcio italiano e moderno: organizzazione maniacale e attenzione al dettaglio, ma anche una predilezione mi abbandonata per un football spesso di attesa e verticalizzazioni rapide e di qualità. Resta un capolavoro del difensivismo a oltranza la semifinale di ritorno contro il Barcellona al Camp Nou: il muro roccioso costruito dal Vate di Setubal ha lasciato rimbalzare gli attacchi dei fenomeni blaugrana, donando all’interismo una finale attesa troppo tempo (e che verrà giocata in gran parte, ancora una volta, gestendo il palleggio infinito del Bayern, per riuscire a colpire letalmente).
Un’eccezione? Probabilmente no. Se nel 2011, infatti, è lo straordinario Barca di Guardiola a riconquistare il trono, nel 2012 accade l’imponderabile: il Chelsea di Di Matteo, subentrato in corsa durante la stagione (curiosità: il Chelsea ha conquistato tre finali di Champions con tecnici entrati in corsa avviata!), è arrivato a trionfare in Europa, dopo aver eliminato proprio i blaugrana e sconfitto il Bayern in semifinale. La squadra dell’allenatore italiano si è dimostrata solidissima, organizzata (i maligni diranno assai fortunata), italianissima e tanto antica nella sua impostazione in campo: eppure vincente, poco da dire. Una seconda rara eccezione?
La validità della scuola italiana all’estero è stata ben rappresentata, in pochi obietteranno, dal Leicester di Claudio Ranieri: partito per non retrocedere, il club britannico si è trovato miracolosamente in vetta alla classifica del più europeo dei campionati europei, superando la concorrenza con un pragmatismo e uno spirito di sacrificio, che ben incarnano l’anima di un calcio (il nostro) sorto dalla volontà di rilanciarsi, sovvertendo così anche i più marmorei pronostici. Ennesima casualità da non considerare troppo seriamente?
L’Atletico Madrid di Simeone ha saputo scalare gerarchie assai consolidate nella penisola iberica, trionfando per ben due volte in patria e sfiorando in un altro paio di occasioni la Coppa dei più grandi (a questo ricco bottino sono da sommare le due Europa League vinte): i Cochoneros hanno diviso, non sempre (per usare un eufemismo) hanno incantato. Per quanto sarebbe estremamente riduttivo e sostanzialmente sbagliato definire “catenacciari” gli undici del Cholo (che anzi hanno dimostrato più volte una capacità notevole nel giocare entrambe le fasi di gioco, praticando anche un pressing offensivo di gran pregio), è indubbio come la squadra madrilena abbia spesso sacrificato gli estetismi a un football intenso, fisico, in fondo antitetico rispetto a quello della scuola catalana: anche in questo caso, però, l’identità di gioco acquisita si è dimostrata estremamente efficace e in grado di regalare gioie senza precedenti alla seconda tifoseria della capitale spagnola.
Sorvolando, poi, sul sorprendente Lione di Garcia (una semifinale di Champions ottenuta con un calcio semplice, umile e senza nomi ridondanti), si pensi all’ultimo e vincente Chelsea di Touchel: il tecnico tedesco, in pochissimo tempo, ha plasmato un gruppo compatto, ben collaudato in difesa (addirittura a tre: quale orrore!), decisamente più incentrato sulla straordinaria intensità e fisicità di Kanté che sulla quasi impalpabilità di alcuni dei suoi talenti (Werner su tutti). La squadra londinese ha dimostrato non di rado, nel corso della stagione, alcuni problemi nella fase offensiva, sapendo però compensare al meglio con una retroguardia impeccabile e una lettura intelligente e qualitativa delle fasi di gioco e delle contingenze.
Ancor più tattico e “italianissimo” di Tuchel (utilizzando, non però in senso dispregiativo, categorie sacchiane) è Zinedine Zidane. Elogiato dai più “reazionari” dei Nostri (Capello ha per lui una sorta di venerazione), il fuoriclasse francese ha riportato la Champions al Tempio madrileno del Bernabeu per ben tre volte consecutive, non pretendendo mai di essere inventore in panchina: Zizou sa interpretare gli istanti, modella e rimodella a seconda degli avversari, sa vincere talvolta con cinismo o sfruttando le qualità infinite dei suoi. Zidane è forse l’esemplare più riuscito del tecnico che è grande gestore e studioso degli attimi; in questo è probabilmente più allegriano di Allegri, nel saper rispettare a fondo il talento dei suoi, senza aver la pretesa di annullarlo nell’imposizione di un’idea assoluta.
In poche parole, in Europa si vince in molti modi, come è sempre stato: nessuno intende sminuire lo spettacolo offerto dalle imprese catalane, o dal Liverpool di Klopp, che ha saputo affascinare e coinvolgere gli appassionati del continente intero. Nessuno, in altri termini, può permettersi di sottovalutare la centralità che idee profondamente innovative hanno avuto sull’intero movimento negli ultimi decenni; sarebbe non corretto, però, crediamo, cristallizzare tutto ciò in un dogma unilaterale. Le sfumature esistono, e non sono poche: per ogni modello idealizzato vi è quasi sempre un contro-modello, che può essere altrettanto efficace e riuscito. Certo, nel calcio moderno gli uomini e i pensieri viaggiano a una velocità inaudita: pretendere settarismi non ha alcun senso, le contaminazioni sono inevitabili e continue. La tradizione italiana continua a vivere, in forme nuove e adattate alla nuova epoca, nei circuiti internazionali, così come gli influssi iberici o britannici possono essersi ben diffusi nel nostro Paese: marchiare una qualche visione come aprioristicamente manchevole o superata equivale a disconoscere le infinite vie, sempre più tra loro intrecciate, indicate dal Signore del football. Non vi è (anche) cultura italiana nei successi di Mourinho, o in quelli del Cholo? Non è forse italica una porzione del cuore calcistico di Zizou?
In seconda battuta, poi, lo ripetiamo, questo sistema di autocommiserazione estremamente provinciale finisce per lasciare sullo sfondo le radici più profonde di una crisi che va ben oltre il calcio, e che rischia di radicalizzarsi con le conseguenze della fase pandemica. Non si tratta di dichiarare morte idee che continuano nel profondo ad alimentare il calcio del continente; si tratta, invece, di interrogarsi con attenzione sull’orizzonte nel quale le idee si muovono, magari si incontrano, potendo o meno favorire così l’evoluzione di un movimento. Non rinnegando se stessi, ma sapendo fare tesoro di sé, della propria storia, per guardare, se occorre, anche ad altro. La mancanza non è nei pensieri, ma nel non avere ancora (o non più) un terreno davvero adatto al loro pieno radicamento, sviluppo ed evoluzione: le risorse non sono abbastanza, in proporzioneai grandissimi (la Juventus, la migliore tra le italiane, ha al momento il decimo fatturato del continente; L’Inter è quattordicesima, diciannovesimo il Napoli. Più dietro il Milan) e da qui occorre ripartire sempre, senza spalancare in fretta e furia le porte dei tribunali. Un improvvisato e ingiusto processo alle idee “sbagliate” è il migliore alibi per non ridiscutere i rapporti di forza e ricchezza: peccato, però, che i più forti e ricchi, da un po’ di tempo, non siamo noi.