Nove Mondiali, otto Europei e tante finali Champions. Quante ne ha viste e raccontate Roberto Beccantini. Bolognese, classe 1950, il “Beck” ha prestato la sua prestigiosa e raffinata penna a diversi quotidiani italiani, dalla Stampa a Tuttosport, dalla Gazzetta dello Sport al Corriere dello Sport, sua ultima casa. Collabora anche con lo storico Guerin Sportivo. Beccantini appartiene alla vecchia scuola di quel giornalismo sportivo autentico, con la filigrana, quando a dominare la scena erano i Brera e gli Arpino. Da loro ha appreso tanto e lo rivendica con orgoglio. Dai suoi maestri, Civolani su tutti, ha imparato tanto e la prosa che il giornalista bolognese oggi ci regala ne è la testimonianza. Uno stile asciutto e piacevolissimo, aggettivi al posto giusto, con i quali prende per mano il lettore conducendolo a una lettura tutta d’un fiato, sempre accattivante e mai banale. Di lui mi hanno sempre colpito la classe e lo stile misurato, lo stesso col quale risponde alle mie domande. L’eloquio è torrentizio, ne scaturisce una bella chiacchierata sospesa tra il passato, con i suoi esordi, fino ai giorni nostri.
Come e quando nasce la sua passione per lo sport?
“A Bologna, la mia città, che ai miei tempi era una meravigliosa palestra di sport con calcio, basket (tre squadre in serie A), pallavolo, baseball, pugilato e atletica leggera. In quel contesto, grazie anche a mio padre, mi appassionai di sport e iniziai a coltivare la grande passione per la scrittura”.
Il suo mentore?
“Il concittadino Gianfranco Civolani, mio primo maestro. Fu lui a iniziarmi al mestiere insegnandomi le basi. Il 1 novembre lo celebreremo a Bologna, al teatro Duse, col primo concorso giornalistico a lui intitolato, a 4 anni dalla sua scomparsa. Una vetrina riservata ai più giovani che Gianfranco amava scovare. Grazie a un amico di mio padre, Giuseppe Ghillini, ingegnere e presidente della federazione baseball, il 7 giugno 1966, nelle pagine interne di Tuttosport apparve un trafiletto con le mie iniziali relativo a una gara di serie B di baseball giocatasi a Casalecchio di Reno. A nemmeno 16 anni avevo esordito come giornalista, ero al settimo cielo…”
Gli altri maestri cui si è ispirato?
“Ce ne sono tanti. Brera, Montanelli, Mura, Monti, Pistilli, Audisio, Romeo, Ormezzano, D’Orsi. In 72 anni ho letto tanti colleghi, c’è sempre molto da imparare…”
Una istantanea sul giornalismo di oggi e le differenze con quello dei suoi tempi…
“Ora, col web, ci sono tante curiosità da sfamare. Vince, a mio avviso, sempre la qualità. Sul piano delle inchieste siamo ancora indietro, c’è poca voglia di approfondire. Quanto al resto, il pugno di campanile del nostro paese continua a guidarci. Sorrido a volte quando leggo, relativamente a una stessa partita di calcio, le diverse moviole fatte dai tre nostri quotidiani sportivi nazionali. E’ un giornalismo fazioso, un po’ superficiale”.
Il suo ricordo più bello?
“Quando, grazie a Gianfranco Civolani, partii da Bologna alla volta di Torino per lavorare nella redazione di Tuttosport. Era il 1970, non avevo nemmeno 20 anni. Allora non era facile come oggi spostarsi da una città a un’altra. Ricordo ancora le lacrime di mia madre, ma quello era un treno che non potevo assolutamente perdere”.
Il giocatore più forte di sempre ?
“Maradona, che ho visto dal vivo. L’asso argentino, rispetto a Pelè, non aveva un Garrincha al suo fianco. Poi Leo Messi. In passato ho avuto una grande ammirazione per Sivori e Platini. A ogni modo è sempre difficile fare dei paragoni tra interpreti di epoche diverse, per dirla con un altro grande maestro come Gianni Clerici. Gli accostamenti, comunque, eccitano e stimolano il lettore, il tifoso, l’appassionato”.
E quello italiano?
“Bella domanda. Mi hanno sempre parlato benissimo di due talenti come Giuseppe Meazza e Valentino Mazzola. Di quelli che ho visto io Gianni Rivera, che incarnava il prototipo del numero 10 e Gigi Riva, capace di un vero e proprio miracolo con la maglia del Cagliari”.
E Gianni Brera?
“Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Al di là della sua dottrina che qualcuno ha bollato come razzista nel senso del suo amore per la Padania, la scuola lombarda difensivista contrapposta a quella napoletana offensivista di Ghirelli e Palumbo, Gianni è stato un grande scrittore e giornalista inarrivabile, aveva una cultura sportiva smisurata, leggerlo era un vero piacere. Erano altri tempi, ribattezzati da un altro grande come Giovanni Arpino “anni di piombo del giornalismo” con riferimento alle tipografie dell’epoca. Sono contento di aver attraversato i due secoli: quello degli anni di piombo, appunto, e quello raffinatissimo del web”.
Quali sono le sue letture preferite?
“Mi cibo di tutto, dagli americani agli spagnoli. Nel nostro ambito, adoro Eduardo Galeano, che una volta ebbi l’onore di intervistare a Piacenza. Leggere mi piace molto, la lettura nutre, allarga la conoscenza dei vocaboli, serve a evitare le ripetizioni e i tanti luoghi comuni nella scrittura”.
I segreti per diventare un buon giornalista?
“In primo luogo avere passione per questo mestiere che non è un mestiere. Umiltà, schiena dritta, competenza, qualità nello scrivere e, possibilmente, una grande cultura”.
Come nasce la sua passione per la Juventus?
“Galeotto fu Omar Sivori. Papà andò a Bologna ad assistere a una amichevole. Era il 1957, la sfida terminò 6 a 1 per i felsinei con quaterna di Pascutti. Papà tornò a casa e mi parlò di Omar Sivori. Rimase colpito dal suo genio e da quella foresta di capelli con i calzettoni abbassati. Poco dopo l’avrei visto dal vivo anch’io: fu il dieci per antonomasia, la fantasia al potere. Diventò il mio idolo e io mi innamorai per sempre della vecchia Signora”.
Le piace la Juve di Allegri?
“Non ritengo sia in grado di lottare per lo scudetto. A inizio stagione, nella mia griglia personale, l’avevo messa fuori dalle prime quattro e confermo il mio pronostico, nonostante questo buono avvio di stagione. L’organico, a mio giudizio, non è all’altezza delle due milanesi e l’assenza dall’Europa non la considero un vantaggio”.
Che calcio è quello di oggi?
“E’ uno sport sempre più tecnologico come del resto le altre discipline. E’ un football, come ho scritto di recente, “molta scienza e poca coscienza”, alla luce dei recenti scandali che lo hanno colpito. Spero che il dribbling resista e che il canto libero del calcio possa prevalere sulle lavagne”.
Chi le piace in panchina?
“Io preferisco i giocatori agli allenatori. Uno che stimo è indubbiamente Spalletti, capace di plasmare un ottimo Napoli e di condurlo al tricolore con merito. Sarei curioso di vedere De Zerbi alle prese con una grande squadra”.
Ha menzionato Spalletti: che futuro intravede per la Nazionale?
“Siamo la media della vittoria degli Europei e l’eliminazione cocente per mano della Macedonia. Non abbiamo fuoriclasse, grandi centravanti, sta venendo fuori questo Scamacca, vediamo, ma non sarà facile il prossimo Europeo”.
intervista a cura di Libero Marino