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Ha scritto la storia del calcio intingendo la sua penna nella classe e nell’eleganza. Lo ha fatto con stile, scortato da un bagaglio tecnico immenso. Ha vinto tutto, è stato il primo calciatore nostrano a vincere il pallone d’oro in quel 1969 magico, condito anche da una Coppa Campioni e una Intercontinentale. Gianni Rivera, 80 anni lo scorso agosto, è l’eterno Golden Boy della nostra pedata. Un fuoriclasse senza tempo, capace di meraviglie balistiche uniche, con quel piede sinistro a disegnare traiettorie impossibili anche se il gol più famoso lo realizzò con l’altro piede, di piatto destro, a suggellare quell’Italia Germania 4 a 3 passato alla storia. Un genio del football, incisivo, euclideo, con buona pace del sommo Gianni Brera che lo definì “abatino”, dal fisico gracile, a sottolineare una sua presunta idiosincrasia alla lotta, alla fatica in campo.

Gianni Rivera ha illuminato per almeno 4 lustri il nostro football, è stato il 10 per antonomasia, il ruolo della fantasia al potere e del cervello al servizio dei compagni. Ha regalato bagliori accecanti in un firmamento calcistico non sempre luminoso. Ma è stato anche l’uomo dei dualismi, quello della staffetta con l’altro divo Mazzola, scelta che scatenò polemiche mai sopite. Ma anche, una volta uscito di scena, il politico mite e giudizioso, fino all’incarico, ironia della sorte, di sottosegretario alla Difesa, lui portato per natura a offendere violando le porte avversarie. E’ stato la bandiera non solo del Milan, squadra di cui fece le fortune, ma anche l’icona di un intero movimento calcistico che oggi avrebbe bisogno di uno così.

Partiamo dalle origini: quando capì di essere un predestinato?

“Praticamente subito. Giovanissimo, a 16 anni esordii in A con la squadra della mia città, l’Alessandria, poi disputai le Olimpiadi e arrivò la chiamata del Milan, prologo alla mia straordinaria carriera”.

Condita da mille successi: il suo momento più esaltante ?

“Ce ne sono tanti, dal Pallone d’oro ai tantissimi trofei. Ma la partita per antonomasia fu quella contro la Germania. Quella messicana fu una sfida storica, e non solo per me: in pochi attimi passammo dall’inferno al paradiso, è la bellezza del football”.

Il suo più grande rimpianto?

“Difficile rispondere. Se alla mia epoca ci fosse stato il Var, forse avremmo vinto tre scudetti in più…”

Un giudizio sui suoi mentori calcistici: Gipo Viani e Nereo Rocco…

“Due personaggi straordinari, diversi ma entrambi fini intenditori di calcio. Viani era un grande allenatore ma era troppo manesco e passò a fare il dirigente. Il Paron aveva un’empatia straordinaria con i calciatori, era quasi automatico diventasse un allenatore di calcio”.

Come visse il dualismo con Mazzola?

“Il dualismo consisteva nel fatto che Sandro fosse capitano dell’Inter e io del Milan. Tra di noi non ci furono mai grossi problemi. Entrambi non abbiamo mai capito perchè non giocammo insieme in Messico mentre in Corea prima e in Germania dopo questo non accadde. Avevamo caratteristiche diverse, dal punto di vista tattico non ci sarebbero stati problemi”.

Lei finì anche  al centro di alcune polemiche: perchè il sommo Brera la definì “abatino”?

“Mi chiamava così perchè evidentemente non avevo il fisico di Nordahl. Il giornalista pavese all’epoca aveva bisogno di un personaggio come me per costruirsi una certa fama, ma la sua definizione non mi creò particolari problemi”.

E Beppe Viola?

“Un altro grande fuoriclasse del giornalismo sportivo. Con lui nacque subito un grande feeling, c’era tra di noi una stima reciproca, si inventò quella bellissima intervista sul tram cui io mi prestai molto volentieri. Un gigante”.

Il 10 è il numero per eccellenza: quanto è cambiato il suo ruolo rispetto ai suoi tempi?

“Tanto, prima quella maglia era quasi sacra, la indossava chi aveva qualità superiori, fuori dal comune. Oggi non mi pare sia più così…”

Le piace il calcio di oggi?

“Lo seguo ancora, ma senza quel trasporto di qualche anno fa. La disciplina è cambiata molto, è una questione di mentalità, le squadre invece di avanzare indietreggiano, faccio fatica a capire il meccanismo. Per godere di qualche emozione bisogna aspettare la seconda parte della ripresa quando le formazioni si allungano un po’ di più…”

Chi è stato il più forte di sempre?

“Pelè, senza dubbio. Se non c’era il calcio lo inventava lui”.

Il difensore che più l’ha messa in difficoltà?

“Tutti quelli che mi abbracciavano invece di ringhiarmi sulle gambe”.

Lei dopo il calcio si è cibato anche di politica: chi è il Rivera di quella nostrana?

“Non saprei. La politica è una cosa bella, fu un’esperienza lunga e stimolante durata un anno di più della mia parabola calcistica”.

Con Berlusconi non sbocciò mai l’amore: come mai?

“Bisognerebbe chiedere a lui, ma ormai…”

E Andreotti?

“Personaggio straordinario. A un certo punto coniò la famosa frase sul potere, destinata a fare scuola”.

Recentemente ha dichiarato che sarebbe stato disposto a raccogliere l’eredità di Mancini in Nazionale: lo pensa ancora?

“Certamente. Mica devo giocare io. Farei come Liedholm, impartirei gli ordini stando comodamente seduto in panchina. Ora ho tutte le carte in regola per allenare. Quando Tavecchio mi propose come allenatore della Nazionale, l’Associazione Allenatori si oppose poiché non avevo completato i corsi. Ora non possono fare nessuna discussione a proposito e a chi mi dice che non ho mai allenato rispondo che lo facevo mentre giocavo.”

Chi vincerà lo scudetto?

“Non sono in grado di valutare perchè non vedo tutte le partite. Ho ancora una certa simpatia per il Milan, staremo a vedere…”

E la nuova Nazionale di Luciano Spalletti?

“E’ una squadra ancora in fieri, indecifrabile, spero torni presto a giocare bene, sono fiducioso”.

Intervista a cura di Libero Marino