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Sono le ore 14,50 del 6 febbraio 1958. Aeroporto di Monaco-Riem, Monaco di Baviera. Il volo 609 della “British European Airways” rulla sulla pista per il decollo con destinazione Manchester. Il bimotore ad ala lunga Airspeed Ambassador, di produzione britannica, ha già provveduto al necessario rifornimento per affrontare l’ultima tappa di trasferimento. Una fermata programmata fin dalla partenza avvenuta dall’aeroporto “Tesla” di Belgrado. Il velivolo è in ritardo di un’ora perché un passeggero ha faticato non poco a ritrovare il passaporto. A bordo si rilassano, soddisfatti per l’ennesimo traguardo raggiunto, i calciatori del Manchester United. I Busby Babes, come sono soprannominati (un gruppo scoperto e allenato da Jimmy Murphy, passato poi dal settore giovanile alla prima squadra), hanno appena raggiunto la semifinale di Coppa Campioni. Forti del 2-1 dell’andata, è stato più che sufficiente il 3-3 confezionato alla Stella Rossa di Belgrado. È lo scozzese Sir Matthew Busby a guidare la squadra, sin dal lontano 1945. Terminerà nel 1969, con un ritorno nella stagione 1970-1971. Il tecnico, artefice di un grandissimo lavoro, condusse lo United ai vertici del calcio europeo. Ore 15,04 al terzo tentativo di decollo, causato anche dal surriscaldamento di un motore, l’aereo prende una velocità non adeguata al volo (complice il fondo innevato). La pista a quel punto diventa troppo corta. Cortissima. Inevitabile l’uscita con successivo schianto, prima sulla recinzione e poi su una casa, al momento disabitata. Il velivolo prende fuoco tra una strettoia formata da un albero ed un capanno con all’interno un camion pieno di pneumatici e carburante. Del totale di 44 persone occupanti l’aeromobile si contano, alla fine, 23 vittime. Tra queste, otto calciatori del Manchester più tre membri dello staff. Feriti, ma salvi, mister Busby (tanto grave che per due volte gli fu impartita l’Estrema Unzione) e l’attaccante Johnny Berry, colui che aveva smarrito il passaporto. Le indagini sul tragico incidente durarono fino al 1968, quando le autorità britanniche dichiararono che furono accumuli di ghiaccio e neve sciolta sulla pista a frenare l’aereo impedendogli di raggiungere la velocità ideale al decollo. Ma non è questa né la trama né la storia di “Believe – Il Sogno si avvera”, del fotografo e regista inglese David Scheinmann. Il “disastro di Monaco” è però sempre presente nello scorrere della pellicola. Lo spettatore “avverte” la tragedia attraverso lo sguardo languido e melanconico di un ricordo mai cancellato dell’allenatore Sir Matthew Busby (interpretato da Brian Cox). Nel finale onirico del film, rivedrà le sagome sorridenti dei suoi ragazzi in maglietta rossa periti nell’incidente. Believe magari non vincerà l’oscar e non sappiamo nemmeno se i puristi della celluloide considerino eccelsa l’opera. Ma l’incessante pioggia inglese, le ciminiere e la malinconica periferia industriale di Manchester, il lunario da sbarcare della lower-class, quelle tipiche case di mattoni rossi, dagli spazi angusti, tutte assurdamente uguali, sono una breccia nell’animo. Il piccolo Georgie Gallagher (interpretato dal bravissimo Jack Smith) ha in testa solo il calcio. Con i suoi amichetti del quartiere vive, mangia e dorme con la sfera di cuoio nelle vene. È però anche testardo Georgie. Rabbioso, un ladruncolo in erba. La prematura perdita del padre, il non averlo potuto salutare, le pietose bugie (poi scoperte) raccontate dalla madre per un destino più accettabile, rendono il protagonista ribelle e sfrontato. In uno dei momenti chiave del film dirà: “Non sei più mia madre da quando è morto mio padre”. Sarà proprio Busby, già avanti negli anni, a cercare di rimetterlo sulla via della ragione, allenando una squadra di marmocchi che ha come obiettivo la partecipazione ad un torneo di calcio a sette. “Divertitevi” il mantra della leggenda di Manchester. La finale è ambientata nel vetusto stadio del Salford City FC (attualmente in League Two, la quarta divisione inglese). E’ qui, con Georgie che arriva trafelato dopo un esame di ammissione ad una scuola di rango, che si compie la nemesi di Scheinmann. La giustizia si personifica sotto varie forme, più o meno sottaciute. Il gioco di squadra che prevale sui precedenti egoismi, le lezioni di vita del buon Busby che vengono recepite in un solo respiro, il calcio di punizione trasformato dopo un fallo vigliacco. In ultimo il sorriso di quegli otto calciatori scomparsi, che salutano Busby con un’aria mista tra il rimpianto per le partite non più giocate ed un saluto come a dire: ci rivedremo mister! Nel finale c’è anche il tempo per un sorriso, allorquando viene sostituito il piccolino del gruppo. “Complimenti (dice Busby) metterò una buona parola per te con lo United” e quello scugnizzo anglo-napoletano di rimando: “non ci penso neppure, io giocherò per il City”. Non poteva mancare il derby di Manchester in un film giustamente catalogato nel filone “drammatico”. Per la società inglese del tempo (il film si svolge nel 1984) e le persone che la compongono. Per il languore e il rimorso di un uomo (Sir Matthew Busby morirà nel gennaio del 1994) e per l’amaro sottofondo che ha visto svanire la forza e il sorriso dei mitici Busby Babes.