Il Veneto è terra di rivalità e radicamento territoriale: tra le varie province e città, la sedimentazione di storie secolari e inimicizie mai del tutto digerite si traduce in rapporti di antagonismo e rispetto, odio pennellato di riconoscenza. Venezia, Padova, Vicenza, Verona (e tutte le altre) si contendono, con orgoglio e consapevolezza, primati e bellezze, vitalità non annientate da globalismi e modernità proclamate. Ogni identità, in fondo, si costruisce all’interno di un gioco, mai del tutto esaurito, tra chiusura e apertura, opposizione e più inclusiva accettazione; il rapporto tra amico e nemico, così direbbe Carl Schmitt, è il terreno sul quale la comunità viene a edificarsi, attribuendosi un orizzonte comune e costruendo un’appartenenza che sappia essere anche duratura.
Il calcio, in tutto ciò, diviene un’espressione popolare, e insieme sublime, di particolarità e sfumature, radici e conflitti: un universo di certo non risolvibile nel culto dello spettacolo o di tatticismi esasperati, ma ben attraversato dalle tinte mai uniformi dall’esistenza, dalle intersezioni non banali di individualità e socialità, memoria e attualità. Domenica 5 dicembre, dopo ben 19 anni, si gioca in serie A Venezia-Verona, uno dei derby della regione: a partire da qui, proveremo a dipingere un quadro di ricordi ed emozioni, battaglie e sberleffi. Un racconto complesso, ma anche intrigante, in quell’intreccio di realtà e finzione che plasma il “Noi”.
Venezia e Verona: tra calcio e cultura
È il 24 giugno 1405, e una delegazione veronese consegna al Doge veneziano le insegne della città, giurando fedeltà. Nei decenni dopo, poi, lacerazioni e opposizioni non mancheranno, lasciando emergere quel dialogo, spesso un tantino aspro, tra passato e presente, nostalgia e avvenire. Brunoro della Scala proverà a riconquistare la città con l’appoggio e la fiducia della popolazione, a dimostrare che le piazze, non di rado, prediligono la certezza del ricordo alla vaghezza delle aspettative; a coinvolgere e turbare terraferma e laguna sarà poi la guerra tra Venezia e Milano, in quel teatro di invidie e ambizioni che va a costituire la storia del nostro Paese, tra campanilismi e antichi e nuovi feudi. Del resto, come è noto, di questi fili nobili e contorti si nutriranno anche le corti inglesi del ‘600, assai avide e ingorde di racconti e meraviglie d’Italia. Non è un caso, poi, che il Veneto sia per molti (e per i più grandi) terra privilegiata per narrazioni e drammi; Shakespeare, non uno tra gli altri, ci racconta la contesa a Verona dei Capuleti e Montecchi, mentre ne “Il mercante di di Venezia” ricostruisce le traiettorie della benestante borghesia veneziana. Non è un caso, si diceva, se si pensa alla ricchezza della Repubblica di Venezia e alla sua potenza sui mari, che nel corso del ‘600 attirerà anche le mire espansionistiche della Gran Bretagna e di sua Maestà, intenzionati a ridimensionare il dominio e a conquistare nuovi privilegi. Anche tra gli immortali della letteratura in Italia (o in ciò che la precorre), poi, Venezia e il Veneto sapevano attirare ammirazione o antipatia; se per Petrarca, ad esempio, Venezia era «città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza de’ figli suoi munita e fatta sicura», il Chichibio di Boccaccio era un vinizian bugiardo e nuovo bergolo, andando così a profilarsi come paradigma, per l’autore toscano, della città di laguna e dei suoi abitanti.
Tornando, però, alle relazioni tra Verona e Venezia, la loro storia comune, all’interno della florida Repubblica, prosegue, nella sostanza, fino al 1797 e alla conquista napoleonica (nascerà la Repubblica Cisalpina), per poi mutare ancora forma con la Restaurazione e il periodo austriaco; nel 1866, infine, il Veneto sarà annesso al Regno d’Italia, inaugurando capitoli a noi più vicini.
Se storicamente la tensione tra Venezia e Verona non è forse tra le più agguerrite, non è così strano che, anche nel calcio, il derby, per quanto sentito, non sia espressione di odio profondo. Tra i precedenti in serie A della sfida (non molti), è da ricordare il 2-2 del 2000, alla giornata 31: i veneziani si portano in vantaggio per 2-0 (reti di Budan e Ganz) per poi essere rimontati (Adailton, Salvetti), avviandosi così a una retrocessione inevitabile. Nel 2001-2002, poi, i veronesi si impongono alla seconda giornata contro la squadra guidata dall’ex Prandelli (0-1, con goal di Salvetti), mentre al ritorno è Oddo a siglare la rete decisiva per gli Scaligeri.
Andando a rovistare nella preistoria del football, le prime sfide in programma tra i due club veneti risalgono al 1911. Si tratta, in realtà, di incontri solo ipotetici e mai disputati: il Venezia, infatti, non si presenta per ben due volte, regalando agli avversari una vittoria a tavolino per 1-0. Cose di altri tempi, insomma, e non solo perché oggi il risultato sarebbe stato uno 0-3. Negli anni ‘30 è da segnalare uno spareggio salvezza a tre, e tutto in terra veneta, tra Venezia, Verona e Vicenza, al termine di una stagione (quella ‘33-34) conclusa dai tre club a pari punti. Al termine del mini torneo la classifica dirà: Verona 6, Vicenza 5, Venezia 1. Per i veneziani, già qui lo si intuisce, la ricerca della gloria in campo non sarà spesso il riflesso della grandezza passata.
Venezia e la ricerca di un’identità
La Venezia calcistica ha conosciuto il suo periodo più fortunato tra gli anni ‘30 e ‘40 del Novecento (ai tempi di Loik e Mazzola), per poi alternare fasi sbiadite e più o meno turbolente a qualche scintilla e rara bellezza. Nella storica stagione 1998-1999, è stato il mancino di Recoba, in prestito dalla talentuosa Inter morattiana, a incantare la laguna, regalando a Venezia e ai suoi abitanti una non sperata salvezza.
L’inseguimento di un’identità più precisa, per la Venezia calcistica e i suoi sostenitori, è anche il riflesso di alcuni dei tratti costitutivi della città e della sua epopea: Venezia è tenacemente orgogliosa e tradizionale, ma anche cosmopolita e moderna. Il culto del passato ha, come suo complemento, un presente perfino sovrabbondante di novità e globalizzazione; poche città possono vantare quella tensione così profonda tra conservazione e progresso, provincia e mondo. Dei veneziani talvolta si dice che sarebbero poco ospitali o scontrosi, ma la chiusura (vagamente reale o solo presunta) è il contro-altare di una visibilità estrema; Venezia vive con consapevolezza e fierezza l’unicità della sua fluidità, ma anche sperimenta, in alcuni casi, la paura di chi rischia di annegare tra la perdita del limite o l’esasperazione dell’arte declassata a business e cartoline. Il capoluogo veneto è cosciente della straordinarietà della propria storia, ma anche del timore che essa possa essere ridotta a mero prodotto o a qualche souvenir da collezione.
Nel 1987, sperando così di rimediare a problematiche economiche non irrilevanti, il vulcanico Maurizio Zamparini acquista il club veneto, e insieme a esso anche il Mestre, avviando così una fusione caldeggiata e insieme osteggiata: la squadra verrà a chiamarsi VeneziaMestre, si trasferirà sulla terraferma allo stadio Francesco Baracca, e sulla divisa al nero-verde della tradizione calcistica veneziana dovrà essere aggiunto anche l’arancione mestrino.
Tra la tifoseria le divisioni non sono irrilevanti: se una buona parte della curva si mostra fedele all’Unione, le contestazioni, in nome di una maggiore aderenza alle radici, di certo non mancano. Tra i dissidenti si distingue, in particolare, la Vecchia Guardia, formata dai più irriducibili o (se si preferisce) orgogliosamente “provinciali” gruppi ultras, che verranno anni dopo a dividersi nei Vecchi Ultrà (legati alla destra radicale) e i Rude Fans (giovani e antifascisti).
Se il club ritorna, già nel 1989, a chiamarsi più semplicemente Venezia, quando si opta per l’abbandono dello stadio Baracca, per il ritorno al Penzo, sono i sostenitori del Mestre a scaldarsi, andando a creare una nuova frattura: una parte di essi, infatti, fonderà la Malcontenta Mestrina, con la tenacia di chi intende resistere a quelle che sono considerate scelte sempre più commerciali e meno culturali. La nuova squadra, però, non è l’unica ad arricchire uno scenario sempre più frastagliato: da alcuni tra i rami dei veneziani poco favorevoli alla fusione, sorgeranno il Calcio Venezia (giocherà derby proprio con la Malcontenta) e il Favaro Calcio. Intorno alla squadra dilettantesca della Laguna Veneta, poi, i movimenti saranno significativi: nel 2011 l’Associazione culturale cuore neroverde 2007 si allontana sempre più dal resto della curva, fino ad abbandonare anche il club e a legarsi alla ben più piccola squadra della laguna.
Se tra i più tradizionalisti e nostalgici l’opposizione alle ragioni sempre più astratte e meno vitali del football si traduce in una contrapposizione al nuovo connubio calcistico, anche tra le parti più concilianti della tifoseria, le asprezze si presenteranno con frequenza, se pur per ragioni opposte. Pochi mesi fa, la presentazione della nuova divisa ha attirato non poche proteste, e per una ragione semplice e apparentemente di contorno: l’arancione è troppo poco presente, sovrastato dal più antico neroverde. Un episodio simile era avvenuto nel 1999, con gli Ultras che, per il medesimo motivo, avevano imposto la modifica della divisa, nel maggiore rispetto della nuova e più recente storia.
L’identità del Venezia calcio, allora, ben trattiene in sé il dinamismo della storia cittadina: la costruzione dell’appartenenza racchiude la mobilità costitutiva della sua forza, ma anche la relazione, non di rado ambivalente, tra laguna e terraferma. Nella città veneta convivono l’anima di un fiero isolamento e il legame da costruire con una modernità che incombe: individuare nel 1907, o invece nel 1987 (come vorrebbero i più fedeli unionisti), la nascita del club, significa anche scegliere tra tradizione e apertura, senza che questo, però, si converta necessariamente nell’esaltazione del marketing o del profitto.
Verona e le sue anime
Verona, si sa, è città in netta prevalenza di destra; le ragioni storiche possono essere molteplici, stratificate e non così facilmente individuabili. Tra le altre, pare legittimo evidenziare il rapporto controverso e ambivalente della città con il ventennio fascista: se da un lato la terra di Romeo e Giulietta è medaglia d’oro per la Resistenza, dall’altro essa, insieme a Milano e Salò, è stata anche scelta come una delle capitali della Repubblica sociale italiana, ultimo baluardo di un fascismo agonizzante, e come una delle principali basi dei tedeschi in Italia. Non è da dimenticare, poi, la presenza a Verona di una delle comunità ebraiche più antiche d’Italia, con tutto quello che ciò può significare nel plasmare un orizzonte comune, ma anche nel profilarsi di possibili ostilità e lacerazioni.
La tifoseria dell’Hellas è certamente una delle più temute e agguerrite d’Italia. Le Brigate gialloblu nascono nel 1971, e negli anni sapranno farsi conoscere, e a più riprese; con gli ultras italici di inimicizie verranno a formarsene molte, senza però che questo sia sufficiente a rinnegare alleanze anche curiose. Una di queste, in particolare, è da menzionare: nel corso degli anni settanta, in una trasferta londinese viene data ad un gruppo di tifosi veneti la possibilità di esporre i propri striscioni nella curva del Chelsea, andando così a gettare le basi per un’amicizia duratura. Ed è così che gli scaligeri inizieranno a mostrare, durante i loro incontri, anche la Union Jack, in ossequio al nuovo e internazionale rapporto fraterno.
Provando a inquadrare la connotazione ideologica della tifoseria, i gruppi legati alla destra radicale sono, e fin dalle origini, certamente i più numerosi. Tra questi, la Gioventù Scaligera è un riadattamento in salsa ultras della Gioventù hitleriana, mentre il Verona Front va a ispirarsi, poco velatamente, al Fronte della Gioventù; l’Hellas Army, invece, risente delle emanazioni britanniche e dei suoi intrecci. Per quanto nettamente minoritaria, la sinistra più dura e pura, rappresentata dai Rude Boys, è soprattutto agli albori, presente, e in rapporti prevalentemente pacifici con la restante parte della tifoseria. Per essere precisi, è probabile che agli esordi la fede ideologica di alcuni dei fondatori fosse legata alla sinistra estrema (la scelta della denominazione “Brigate”, ad esempio, potrebbe essere un omaggio alle nascenti “Brigate Rosse”). Ad ogni modo, e al di là di un’adesione politica inizialmente non così esplicita, quello degli Ultras dell’Hellas viene a configurarsi come un movimento altamente organizzato, strutturato, come il sigillo stabile tra calcio e città, oggetto di ammirazione (e non solo rancore) anche da parte delle altre tifoserie della penisola: un’esemplificazione nitida di quella che può essere la valenza culturale e sociale del football, incluse le sue esasperazioni umane e troppo umane, gli eccessi che non di rado si palesano.
Va detto però che, nel tempo, la componente neofascista ha finito per assumere un’egemonia sempre maggiore e sostanzialmente dominante nel tifo, accompagnando con croci celtiche e svastiche (ma anche con la bandiera degli Stati Uniti meridionali durante la guerra di secessione) gli incontri della prima squadra della città. Insomma, con pochi dubbi le frange della tifoseria più radicali dell’Hellas vanno ad esprimere alcuni dei tratti ben presenti nel capoluogo: la Verona Nera, si direbbe, quella al centro di inchieste giornalistiche e televisive, non di rado non prive di retorica e strumentalizzazione facile. A prescindere da tutto, però, quella Verona esiste, e con essa occorre fare i conti: non semplicemente nell’ottica di un moralismo non si sa quanto sincero, e nemmeno limitandosi a tagliare con l’accetta tutto ciò che, per qualche canale o viuzza, prima o poi ritorna. Nel bene e nel male, che piaccia o no, la storia di un popolo si traduce anche nelle espressioni del football, e nella densa miscela di idee ed emotività di chi lo rappresenta, comprese anche, sarebbe inutile negarlo, le forme più deviate, magari criminali, o tutto ciò che può generare disgusto o riprovazione nella coscienza della comunità, e in ciò che in essa funge da sistema valoriale di riferimento. Tutto vero, ma non per questo meritevole di essere affrontato unicamente invocando la Thatcher o la repressione dei briganti, ma anzi interrogandosi sulla genesi e le implicazioni di fenomeni assai stratificati.
Verona, dunque, contiene anche elementi neofascisti, in un orizzonte culturale prevalentemente di destra. Negli anni ‘70, del resto, e in concomitanza con la nascita dei primi gruppi ultras, gruppi come La Rosa dei Venti, Ordine Nuovo e la coppia Ludwig (due serial killer radicalizzati politicamente) hanno riconosciuto nella città veneta una base importante della loro pianificazione. Negli ultimi anni Forza Nuova si è costruita spazi significativi (Roberto Fiore ha definito Verona la «Vandea d’Europa», esaltandone così lo spirito reazionario), con Luca Castellini (ultrà e dirigente del partito, ultimamente incriminato per gli scontri con la CGIL) come figura di spicco nell’alleanza tra stadio e politica.
È questo un universo che può assumere tratti inquietanti, o anche sconcertanti (si possono citare, tra i fatti noti, il rogo di un manichino nero in curva negli anni ‘90, o i cori inneggianti a Hitler o Rudolph Hess), e che però sarebbe fin troppo semplice strumentalizzare per finalità più o meno note, in quella reductio ad hitlerum (citando Leo Strauss) non di rado utilizzata dai guardiani della morale.
Se un’indole cameratesca esiste nella Verona calciofila e nei suoi legami culturali, non per questo essa può essere assolutizzata; al contrario, la reazione più virulenta e decisa può consolidare, gli ideali a tinte assai più arcobaleno dell’universo progressista. La Virtus Verona (in divisa rossoblu), attualmente la seconda squadra di città, si professa apertamente “antifascista, antirazzista e antisessista”. Gemellata con la rossa Livorno, e all’estero con il Celtic e il Marsiglia, la tifoseria del club di Borgo Venezia si concentra nei gruppi della Virtus Death Brigade, con il supporto dei gruppi musicali degli Ashpipe e dei Los Fastidios, e con l’orgoglio di chi rivendica l’estraneità assoluta al mondo Hellas. Il club vanta anche un curioso primato: Gigi Fresco, dal 1982, è sia allenatore che presidente della Virtus, plasmandone l’identità e le intenzioni. Noto è l’impegno della società nel campo dell’inclusione: oltre all’apertura delle tribune dello stadio Gavarnini a rifugiati e migranti, a partire dal 2015 un gruppo di profughi è stato trasferito in un’abitazione messa a disposizione dalla cooperativa legata al club, con la possibilità anche di giocare al pallone. Tutto molto bello, certo, ma non sempre ciò che luccica è oro: il presidentissimo è attualmente indagato per truffa ai danni dello Stato, proprio nell’ambito delle politiche dell’accoglienza. Il garantismo è obbligo, sia chiaro, ma talvolta potrebbe tornare in mente il “potere dei più buoni”, cantato dal visionario Gaber.
Insomma, tra integralismi di destra e antifascismo, tra reazione e progresso, Verona racchiude in sé anime lontane, ma anche complementari: la durezza e radicalità di una certa cultura “nera” convive e si scontra con la politica dal volto più buono. Ideologia, sport e cultura si mostrano nella complessità dei loro rapporti, in contaminazioni da accettare ed esplorare.
Un capitolo a parte, e meritevole di essere menzionato, è quello relativo al Chievo e alla sua storia. Nato in un quartiere della città, il club ha conosciuto una rapida e vertiginosa ascesa; negli anni duemila si è avuto il compimento della “favola Chievo”, con i gialloblu in serie A e dopo non molto giocarsi anche in Europa. A più riprese, nel corso del tempo, si è parlato del modello introdotto dalla piccola società veronese nell’incoraggiare un tifo formato famiglia ben distante dagli eccessi dell’Hellas e delle sue anime. Pareva degno di nota, infatti, che nel luogo del tifo organizzato forse più battagliero d’Italia potesse anche ospitare una così confortante e benevola realtà! In effetti, per i primi tempi una rivalità tra i due club non è esistita, con i supporters della prima squadra veronese a seguire talvolta in trasferta le vicissitudini dei ben più giovani cugini. Anche nelle prime sfide in serie A, l’atmosfera è per lo più pacifica e fraterna, con la sensazione che in quel derby vi sia in fondo qualcosa di atipico: per alcuni può rappresentare l’avvenire di un calcio pulito, per altri l’impoverirsi di legami e identità più profonde. Gradualmente, però, le cose vanno a cambiare, e in direzioni più note. Un motivo dei disputa tra le società, ad esempio, sarà l’utilizzo da parte del Chievo dei colori e dello stemma (la celebre scala) legati al passato della storia comunale della città, suscitando l’indignazione dell’Hellas, ben convinto di avere un’esclusiva sull’epopea degli Scaligeri. Con i simboli, del resto, non si scherza, e soprattutto a Verona: il 17 aprile 2020, la tifoseria ha considerato di cattivo gusto la scelta di presentare sanitarie in stoffa con scale a tre pioli, accusando i “bifolchi che speculano sui nostri simboli e colori”. Insomma, con il culto non si scherza, ed è bene saperlo.
Tra Chievo ed Hellas, non mancheranno, poi, gli scontri tra le tifoserie: nel 2011, al termine di un Chievo-Samp, e a causa della presenza di ultras dell’Hellas, e poi nel 2015, quando un gruppo legato a questi ultimi aggredirà alcuni sostenitori della North Side clivense. In poche parole, il volto lindo ha iniziato, e non poco, a macchiarsi!
Attualmente il Chievo Verona si trova in una fase drammatica della sua biografia, sostanzialmente cancellato e rilegato tra gli amatoriali. A contendersi l’eredità di ciò che ormai pare ridotto a cenere sono il Chievo di Luca Campedelli e la Clivense fondata da Sergio Pellisier, ex gloria della squadra: il tifo è ora spaccato, indeciso tra la riconoscenza verso il Presidente e la storia recente e gloriosa, e quella verso l’attaccante icona dei gialloblu. La vicinanza della North Side alla Clivense e al suo progetto (nella speranza, comunque, che le fratture possano rimarginarsi) dimostra quanto l’appartenenza non possa essere impoverita secondo i dettami dello show e dei mercati .
Il derby Verona-Vicenza
Per ogni comunità il rapporto tra amici e nemici si rivela essenziale, e il derby tra Verona e Vicenza è uno dei più sentiti della regione. La rivalità risale già agli anni ‘70 e le ragioni sono anche ideologiche: se il tifo gialloblu, infatti, è collocabile principalmente a destra, tra i biancorossi vicentini l’orientamento è storicamente a sinistra. I Vigilantes, che come simbolo scelgono un boia, ispirandosi al giustiziere Tez Willer, nascono dalla fusione di sigle precedentemente esistenti, e rappresentano la prima sigla davvero significativa nell’universo ultras vicentino, venendo affiancati, poi, dai Red White Panthers. La simbologia, tra i vari gruppi che vengono gradualmente a generarsi, è certamente lontana da quello che è, e sarà sempre più, il sistema di riferimento dell’Hellas: sugli spalti, oltre al tao (esposto dal Fabio Group), o alla bandiera di Amsterdam, non mancheranno le icone più immediatamente riconducibile alla galassia della sinistra radicale (falce e martello e Che Guevara). I conflitti tra le varie anime non sono mancati, a testimonianza delle molteplici sfaccettature di un terreno dalle tinte non uniformi: il già citato Fabio Group, in particolare, nasce a inizio anni ‘90, in opposizione agli atteggiamenti considerati eccessivamenti tiepide tiepidi dei Vigilantes (verranno sciolti nel 2012), provocando scompiglio all’interno della tifoseria stessa. Va detto, poi, che il prevalente orientamento dei gruppi storici non deve in alcun modo nascondere quelle che sono realtà molto differenti: il raggruppamento degli Ultras ‘93, ad esempio, è formato in larga parte da Skinheads, e rappresenta forse una delle più originarie esportazioni del fenomeno nella nostra penisola.
Ritornando al derby veronese-vicentino, nel corso degli anni ‘70 le tensioni sono frequenti e accese: tra il ‘76 e il ‘78, gli scontri sono diversi, e talvolta avvengono anche irrispettosi furti. Nel ‘78, ad esempio, i tifosi gialloblu esporranno , in un match contro la Roma, lo striscione “Ultras”, sottratto ai vicini rivali; qualcosa di analogo si ripresenterà nel ‘94, con l’esposizione, sempre da parte veronese, dello striscione rubato ai vicentini in un autogrill “Tartan Army”, mentre anni dopo saranno i Vigilantes a sbeffeggiare l’Hellas, esponendo la sigla “Scalette”. Insomma, contese più o meno pacifiche, ironie e violenze ben si fondono nella storia di una sfida cittadina che, in misura consistente, va a raffigurare i particolarismi della terra veneta, nel groviglio delle sue sfumature.
Venendo al campo, il Vicenza conosce la sua fase d’oro proprio nei controversi e contraddittori anni ‘70, sfiorando anche, grazie alle giocate e i goal di Paolo Rossi, quello che sarebbe stato uno storico scudetto. Negli anni ‘90, poi, la squadra vicentina conosce un nuova fase brillante, con la vittoria della Coppa Italia della formazione allenata da Gudolin. Nel ‘96-97, ecco una storica sfida con il Verona in serie A: i gialloblu si portano in vantaggio per 20, venendo però rimontati dai tenaci ospiti. Tra gli incontri più recenti, invece, è da segnalare un 5-3 per il Vicenza in serie B nel 2004, uno degli incroci con il numero più alto di reti totali siglate.
Padova e le sue rivalità
Le rivalità in Veneto sono molte, e un quadro completo meriterebbe un racconto più esteso: dovendo fare un’ingiusta scelta, Padova, senza dubbio, vanta una storia calcistica di assoluto rispetto. Negli anni ‘50, sotto la guida di Nereo Rocco, catenacciaro e italianista ortodosso, la squadra raggiunge i primi posti in serie A, proponendo un football estremamente accorto, reattivo, di certo non spettacolare: i fischi non mancano, talvolta si balena qualche vago ripensamento, ma la convinzione che quella possa essere la strada maestra per una provinciale in ascesa si conferma, e con il plauso di un certo Gianni Brera. È quello, di certo, il punto più alto delle vicissitudini del club, poi di frequente in affanno tra il primo campionato e le categorie inferiori. I legami, però, restano saldi e passionali, così come le rivalità. Antica è quella con i cugini vicentini, e non solo per ragioni strettamente calcistiche. Tra gli epiteti utilizzati dai padovani, nei confronti dei rivali, vi è quello non difficilmente traducibile di “magnagati”, presente anche in una celebre filastrocca popolare veneta (“venexiani gran signori,padovani gran dotori, visentini magna gati,veronesi tuti mati,trevisani pan e tripe,rovigoti baco e pipe. E belun?Ti belun, non ti vol nesun”). Secondo la leggenda, sul finire del 1600 un’epidemia di peste avrebbe colpito Vincenza ,costretta così a chiedere l’aiuto di numerosi gatti veneziani; dei poveri mici poi, non si sarebbe saputo più nulla, arrivando così alla conclusione che qualche creativo cuoco potesse averli presentati a tavola. Vi è poi una seconda ipotesi, probabilmente meno affascinante e quindi più veritiera: nell’antico dialetto vicentino “gatu magnà” sarebbe l’equivalente, nella sostanza, di “hai mangiato”. Da qui, con qualche giochino, si sarebbe giunti al burlesco “magnagati”.
Tornando al campo di gioco e alle sue dinamiche, tra Padova e Vicenza è da ricordare un celebre incontro del 12 dicembre 1954, nel corso di una stagione che porterà i due club nella massima serie. La partita viene vinta dai vicentini per 1-0, ma il fatto davvero degno di nota è un altro: i tifosi intorno al campo sono numerosi, e le protezioni cedono, con i sostenitori che si stanziano a bordo campo. L’arbitro Orlandini, dopo alcune verifiche, decide che la sfida dovrà concludersi, e così sarà, senza altri particolari disguidi.
La rivalità forse più sentita, a Padova e dintorni, è però quella con Venezia e con il Venezia. Rivali in magnificenza e storia (“Venezia la bella, Padova sua sorella”), tra le due città gli antagonismi sono antichi e consolidati. Tra ‘300 e ‘400, ambendo ed espandersi anche sulla terraferma, la Serenissima intraprende una guerra contro i Carraresi, dinastia padovana; il conflitto negli anni sarà acceso, ma i veneziani arriveranno a conquistare la terra nemica nel 1405. Da qui, una vicenda di avversione e stima, antipatie e sberleffi.
Anche nel calcio tutto questo si riflette, ed è inevitabile: nella partita vinta dal Padova per 4-1, nell’ottobre del 2007, Muzzi, dopo aver segnato, esulta imitando un gondoliere, facendosi così gioco dei nobili cugini. Nella tifoseria patavina, poi, il senso di rivalsa è certamente acceso. Intervistato in uno studio televisivo in vista di un Venezia-Padova del 2016, Andrea Tenani, noto ultrà padovano, dichiara che “invaderemo Venezia, come abbiamo sempre fatto”. L’utilizzo di un linguaggio bellico, con la prospettiva di una mobilitazione di massa, è alla fine ben esemplificativo di ciò che è andato a sedimentarsi in una coscienza collettiva plasmata dai secoli intensi; è un qualcosa che potrà apparire esasperato, o ad alcuni caricaturale, e che però ava testimoniare la portata ampia di un fenomeno, come quello del calcio, variegato e intenso. Una vicenda ricca, e non semplicemente vendibile, lasciatecelo dire, al circo di uno spettacolo astratto e svuotato del suo senso vitale.