Il Venezia ha giocato la sua partita d’esordio nel campionato 2021-2022 (sconfitta per 2-0 a Napoli), dopo 19 anni di assenza dalla massima serie https://www.ilcalcioquotidiano.it/esclusiva-gloria-callarelli-venezia-today/. La squadra veneta punterà al non semplice raggiungimento della salvezza, magari sognando di poter vivere nuove giornate magiche, in memoria del lontano (ma non troppo) 1999: un’annata storica, segnata da una clamorosa rimonta in campionato e dalle prodezze di un fuoriclasse geniale e incompiuto. In molti lo hanno amato, talvolta deriso, in laguna certamente adorato: il Chino Recoba a Venezia è una storia che merita di essere narrata.
Breve storia del Venezia
Siamo nel V secolo (ufficialmente nel 421), e di calcio ancora non si parla: gli abitanti di Aquileia, tentando di fuggire dalle pressioni e devastazioni dei barbari, si rifugiano sulle isole della laguna veneta, arrangiandosi nella fondazione di un nuovo nucleo abitato. La Provvidenza, si sa, ha talvolta progetti insoliti, e nessuno di quei disperati probabilmente avrebbe mai pensato di stare contribuendo alla nascita di una città che saprà tingersi di leggenda. Venezia è arte, storia, passione: in una certa misura, però, è anche calcio, e di questo, piaccia o no, dobbiamo occuparci.
Appena 1500 anni dopo circa una comitiva di appassionati si raduna in laguna per dare origine a una nuova società calcistica: il compito, si può intuire, non è di certo paragonabile a quello dei fuggitivi di qualche secolo prima, ma per i veneti imporsi nel football non sarà così semplice.
Le prime partite si giocano alla pineta Sant’Elena (nel 1913 diventerà il Campo sportivo Sant’Elena, prima di lasciare il posto allo stadio Luigi Penzo), con i calciatori a indossare originariamente una maglia metà rossa e metà blu, decisamente presto sostituita dalla storica e attuale divisa neroverde. Gli avversari sono spesso i vicini di casa (Verona, Vincenza, Padova), oppure gli equipaggi delle navi in arrivo a Venezia (da sempre, si sa, città di mercanti), con una predilezione per i marinai inglesi, al solito propensi a rivendicare il loro primato universale.
Per la prima stagione dei neroverdi in massima serie occorre attendere il 1939-1940: la squadra conclude l’annata con un comunque accettabile decimo posto, lasciando però intravedere i segnali di quelli che saranno i suoi anni d’oro. In particolare, a distinguersi in laguna è un giovane talento in odore di genialità; i dirigenti del Venezia (il presidente è Arnaldo Bennati) lo avevano notato durante le partite disputate dalla rappresentativa dell’esercito (il giovanotto era in servizio militare in Veneto), e non se lo lasceranno scappare: all’Ala Romeo Milano (la squadra di serie C dove il calciatore era tesserato) arriva una buona offerta, e il trasferimento è uno di quelli che può aspirare ad essere annotato nel racconto globale del calcio. Il ragazzo si chiama Valentino, di cognome fa Mazzola, e la storia lo trasformerà troppo presto in un mito.
Nella stagione successiva il Venezia non si migliora in campionato (conclude dodicesimo), ma riesce comunque ad ottenere il risultato più glorioso della sua non eccessivamente gloriosa storia: dopo aver battuto in finale la Roma, i Leoni conquistano la Coppa Italia, ancora oggi unico trofeo in bacheca per la Serenissima. Il tecnico è Rebuffo, mentre in squadra il talento di Loik, mezzala fiumana di capacità eccelse, è andato a sommarsi a quello di Valentino Mazzola: anche del nuovo arrivato, acquistato dal Milan, sentiremo a parlare a lungo, e anzi in eterno.
Nel ‘41-42 il Venezia prova a consacrarsi definitivamente tra i grandissimi, e non mancherà poi di molto il bersaglio. La squadra si trova coinvolta a lottare per lo scudetto, ma perde lo scontro decisivo contro la Roma (poi per la prima volta campione d’Italia) e scivola al terzo posto.
Negli anni successivi il club veneto non riesce più a ripetersi (Mazzola e Loik si trasferiscono a Torino, per scrivere la Storia e vederla poi precipitare in un volo disgraziato), trovandosi non di rado ad arrabattarsi nelle serie inferiori. In serie A ci tornerà ancora per due stagioni a inizio anni ‘60, prima di eclissarsi dai piani più alti per addirittura trent’anni.
Il Venezia di Zamparini e il ritorno in serie A
E’ il 1986: il vulcanico Zamparini acquista il Venezia. La società, ormai da troppo tempo, si trova a vivacchiare tra le paludi del calcio, e occorre nuova linfa vitale, per tentare una non agevole ascesa. Il neo-presidente, lo si sperimenterà in non poche occasioni, non è di certo uomo dalla diplomazia facile e dalla guancia accogliente; come primo gradino della risalita, si cerca e poi si ottiene una fusione con il Mestre (militante in c2, e da poco acquistato), generando sconforto e sconcerto in tutta la piazza. Del resto, però, i campanilismi possono essere battuti, se si dimostra di saperli trascendere; passo dopo passo (o allenatore dopo allenatore, se si preferisce), la squadra lagunare torna a respirare buona aria, e il malcontento si affievolisce. Nel ‘91, sotto la guida di un giovane e ambizioso Alberto Zaccheroni, il Venezia torna in serie B e, visti gli ultimi trascorsi, non è affatto un risultato da buttare.
Le annate scivolano via, i tecnici lasciano qualche traccia, ma appassiscono anche in fretta. Dopo altre stagioni nella sostanza mediocri, a Venezia si arriva però alla svolta: in panchina nel ‘97-’98 siede Walter Novellino, e riuscirà restarci ben oltre la media dei non di rado malcapitati (metaforicamente quasi “decapitati”) dipendenti dello Zampa. La squadra funziona, il neo-tecnico gioca a zona, e così arriva rapidamente la promozione in serie A: il capoluogo veneto può ancora tornare a sentirsi grande.
Nella massima serie, però, rimanere a galla non è missione per tutti, e a Venezia si teme in poco tempo che le acque possano essere causa non di crociere, ma di un annegamento facile. La squadra, infatti, non gioca poi così male, ma i risultati faticano eccome ad arrivare: nelle prime cinque uscite, un misero punticino (zero a zero contro il Parma) e nessuna rete segnata. Se, come si suol dire, è il mattino ad avere l’oro in bocca, per la sera c’è da attendersi come minimo pestilenza. Qualche segnale di risveglio, a dire il vero, non manca: Schwoch sigla la prima rete della stagione (1-1 contro l’Udinese), e arriva perfino una clamorosa vittoria contro la lanciatissima Lazio di Eriksson (2-0: marcature di Tuta e Pedone). Sono solo rari picchi, però, in un’annata che pare essere destinata al trionfo della delusione: nelle prime 17 partire solo 12 punti, e non si sa quando la gita in gondola possa continuare per Novellino.
Qualcosa occorre cambiare, e anche in fretta: il direttore sportivo Di Marzio e il direttore generale Marotta (sì: proprio lui!) si mettono all’opera, dimostrando di non soffrire affatto di carenza di fiuto. Schwoch viene sacrificato e ceduto al Napoli; nel frattempo, però, un’occasione assai ghiotta si presenta, ed è una di quelle che, una volta colte, possono rimanere scolpite in una storia intera.
All’Inter c’è un giocatore di classe sopraffina, dal tocco nobile e anche anarchico, che non riesce però a trovare uno spazio adeguato tra i titolari. La squadra nerazzurra, peraltro, in quella stagione può vantare un’abbondanza invidiabile di numeri dieci e inventori del goal: con Ronaldo, Djorkaeff, Pirlo, Baggio, le possibilità per il Chino Recoba sono decisamente insufficienti. Papà Moratti opta per un prestito, il Venezia si fa avanti: un sinistro magico saprà incantare la laguna.
Il Chino Recoba: bello e incompiuto
31 agosto 1997: a Milano dovrebbe essere il giorno di Ronaldo. Si gioca Inter-Brescia e gli occhi di tutti sono puntati sul fuoriclasse brasiliano. In realtà, i nerazzurri faticano eccome, e il Fenomeno non riesce affatto a distinguersi; nella squadra di Gigi Simoni il gioco non è di certo fluido e spumeggiante, ma non si riesce neppure, in quel pomeriggio di fine estate, a trovare il guizzo risolutivo del campione. Il primo tempo si conclude a reti inviolate, e anche il secondo parrebbe essere destinato a scarse scintille, con l’Inter avviata verso una giornata di noia e preoccupazione. Ecco, però, il momento della svolta: esce Ganz, al suo posto entra Alvaro Recoba. Certo, in principio non pare proprio che le cose stiano mutando per il meglio: il risultato si sblocca con una prodezza, ma a realizzarla è Hubner, che non figura però tra le frecce interiste. Inter- Brescia 0-1: San Siro vive il gelo ad agosto.
Una manciata di minuti dopo ci pensa il fuoriclasse della giornata a risolvere la partita, ma non è quello che tutti avevano atteso. Il Chino si trova un pallone tra i piedi a distanza dalla porta proibitiva quasi per chiunque: un’occhiata rapida verso il portiere, e poi un sinistro micidiale ad andare ad insaccarsi all’incrocio dei pali. Primo tocco di magia, ed è pareggio. Minuto 87: punizione per l’Inter da posizione abbastanza defilata a alla sinistra della porta avversaria. Recoba non ha imbarazzo e si fa avanti: il risultato è un incantesimo che più volte (anche se sempre a sprazzi) vedremo ripetersi. Il Chino ha adagiato il pallone in rete, con quell’apparente serenità da artista quasi svogliato che sempre lo ha contraddistinto: la pennellata è rara, la traiettoria non decifrabile, verso l’incrocio più lontano. Seconda magia, ed è vittoria https://youtu.be/DxDrkgwAylA.
In quella stagione Recoba di goal ne segnerà solo un altro, con una conclusione letteralmente da centrocampo, contro l’Empoli. Per il resto, manciate di minuti e nessuno squillo. In fondo, la prima annata del Chino in nerazzurro è un buon quadro della sua carriera: l’attaccante vive il dovere di realizzare l’impossibile, ma fatica a restare a galla nell’ordinario.
Recoba calcisticamente è nato nel Danubio, club storico dell’Uruguay e rivale del Nacional. In Sudamerica, il talento dal volto quasi orientale (è soprannominato “il Chino” per il taglio degli occhi) segna a raffica, e quasi mai reti banali: in una stagione realizza 32 reti in 41 partite, in un’altra (quando passerà al Nacional) 30 in 33. Recoba sa essere bello e inventore, ma nessuno potrà mai citarlo come modello di stacanovismo applicato al calcio.
Ai tempi delle giovanili (così si narra) la squadra di Recoba giunge una volta a giocarsi la finale del torneo disputato: al termine del primo tempo, con il giovane gruppo sotto di tre reti, ci si rende ben conto che qualcosa manca. Il Chino, infatti, non è in campo: dopo la qualificazione all’ultimo atto della competizione, il fuoriclasse in erba ha ben pensato di godersi la vittoria andando a pesca, passione mai sopita e (secondo alcuni) ancora più sentita di quella per il football.
I dirigenti, discretamente infuriati, lo vanno a riprendere: Recoba, che ha perso completamente la cognizione del tempo, è l’unica strada possibile verso la coppa. Il Chino torna in campo, di reti ne segna diverse, e la situazione drammatica è rovesciata velocemente in festa.
Gli osservatori nerazzurri si accorgono di quel meraviglioso talento, lo segnalano a Moratti e il patron paga. Quella tra Recoba e l’Inter è una storia di passione, pazienza e buchi neri: il Chino saprà costruire il non prevedibile, ma si spegnerà più volte nella routine. E’ anarchico e discontinuo, una miniera di diamanti raramente sfruttata; Recoba è forse la rappresentazione più significativa della prima Inter morattiana: talentuosa, folle, dannata. Probabilmente anche per questo, come ampiamente noto, Moratti se ne innamorerà perdutamente, battezzandolo come proprio figlioccio: è difficile dire, in fondo, se quella scommessa sia stata vinta oppure no.
Recoba non è un calciatore, Recoba è il calcio. Lui ha fatto cose che i giocatori normali non fanno. Chi ho amato di più tra lui e Ronaldo? Eravamo due cose diverse: Ronaldo era il migliore al mondo e quindi lo ammiravo per questo, mentre Recoba non ci aspettavamo fosse così forte. Alla fine si tende ad amare colui che ti sorprende e quindi dico il Chino.
Così si pronuncerà Moratti, e sono parole inequivocabili. Nel gennaio ‘99 il buon padre si rende conto che, per il suo prediletto, sarebbe bene allontanarsi dai Navigli: arriva la chiamata di Marotta e Di Marzio e l’affare è chiuso.
Recoba fa impazzire Venezia
Recoba esordisce in laguna contro a Juventus (1-1): la partita, non è delle migliori, ma presto arriveranno giornate più luminose. Nel match contro l’Empoli, i veneti dopo 37 minuti si trovano sotto di due reti; poi si accende il Chino e tutto muta. Un assist per Valtolina, due per Maniero (uno concretizzato di tacco) e il Venezia rimonta in inferiorità numerica. Con la Roma di Zeman, poi, arriva anche il primo goal in neroverde, oltre a tre punti di peso e prestigio (vittoria per tre a uno). Recoba segna (anche reti decisive e non sempre funamboliche: 1-0 su rigore contro l’Udinese, ad esempio) e, come visto, fa segnare. Anche Maniero, ben poco in luce nella prima fase della stagione, grazie alle prodezze del Chino, viene rivitalizzato, contribuendo alla splendida rinascita del Venezia: le reti arrivano, i punti anche, e non sono affatto pochi. Così Maniero ricorderà il compagno di squadra:
odiava la corsa, la tattica: era disgustato da queste cose. E Novellino diventava matto. Il mercoledì c’era il doppio allenamento, il mattino era sempre parte atletica. Lui ogni mercoledì – l’allenamento iniziava alle 10 meno due minuti, sistematicamente. Poi tempo di cambiarsi e tutto… non iniziava mai in orario come gli altri
Il Chino, insomma, è indolente e creativo: le regole non sono la forma del genio, ma un intralcio alla sua realizzazione. Eppure, è assai probabile, una maggiore propensione alla disciplina e alla cultura del lavoro avrebbero contribuito a donare continuità e stabilità all’improvvisazione; in egual misura, va detto, un Recoba incline al sacrificio avrebbe smarrito la bellezza dell’estemporaneo e la scintilla dell’istante. Ronaldo sapeva essere genio sempre, mentre Recoba poteva sparire o tramutarsi invece nel mago della giornata; il Chino emanava allegria, non senza l’ombra, però, di una malinconica e irrimediabile incompiutezza.
La giornata della consacrazione definitiva del mito Recoba nelle zone di San Marco è il 14 marzo 1999: allo stadio Luigi Penzo è ospite la Viola di Trapattoni, assolutamente in corsa per lo scudetto, e in non molti scommetterebbero sull’impresa. Ecco la formazione schierata da Novellino:
Taibi, Carnasciali, Luppi, Pavan, Dal Canto, Valtolina,Volpi, Miceli, Pedone, Recoba, Maniero
La serata rimarrà negli annali della storia del club. A inaugurare il banchetto è proprio il Chino con una delle sue temutissime e letali punizioni; Toldo nemmeno prova a ribellarsi all’inevitabile, ed è 1-0. Il raddoppio, poi, ha origine da un angolo battuto dallo stesso Recoba: situazione rocambolesca in aerea e ad insaccare è Miceli. Il 3-0 è ancora l’eterna prima mossa del repertorio: altra punizione, questa volta il portiere viola prova almeno a tuffarsi, ma invano. La Fiorentina accorcia a pochi minuti dalla fine su calcio di rigore, ma c’è ancora spazio per l’ennesima invenzione: lancio in profondità di De Franceschi, Recoba riesce miracolosamente a tenere in campo un pallone che pareva destinato a spegnersi sul fondo: il portiere viene dribblato e la sfera si adagia in rete. E’ accaduto qualcosa di molto bello ed estremamente difficile, e che però si è manifestato con quella leggerezza e semplicità apparente della quale sa farsi carico chi è artista. Risultato finale: Venezia-Fiorentina 4-1. La città è in festa, con la primavera imminente che promette soddisfazioni https://www.youtube.com/watch?v=b-vo-Jq1fuA.
Il giorno dopo il Corriere dello sport scrive “Come Maradona”, ed è un titolo assolutamente eloquente: Recoba sa ammaliare e incantare, con la strada per la salvezza, un tempo proibitiva, che ora è sempre più agevole. Le punizioni magiche ed efficaci sono l’innegabile timbro d’autore; il Chino stesso ne svela il segreto:
Quando tiro le punizioni cerco Lorena.. e segno.
Lorena è la moglie del Chino: l’amata si posiziona in tribuna, Recoba la osserva per un istante, per poi lasciar partire una pennellata tanto dolce quanto assassina. E’ lei stessa, del resto, a offrirci un quadro esemplare del compagno:
Pigro e romantico. Nella vita è come in campo: sempre con la testa tra e nuvole, poi un colpo di fantasia che ti spiazza
In quei mesi in laguna “i colpi di fantasia” non mancano e le ombre di inizio anno fuggono via. La salvezza matematica, poi, arriva in una giornata speciale di maggio: il Venezia batte l’Inter di Hodgson (quarto allenatore della stagione!) per 3 a 1 e Recoba sigla una rete preziosissima (su punizione, ovviamente) https://youtu.be/G09vmMmu1xE. In laguna si fa festa, Zamparini e Novellino si abbracciano, ma la malinconia non tarda a presentarsi: Recoba deve tornare a casa, da Papà Moratti, e non sarà un addio semplice da elaborare. Il Chino ha segnato a Venezia 10 reti in 19 partite; la squadra veneta, dopo aver totalizzato 12 punti nelle prime 17, ne ha conquistati 31 in 18. La storia, insomma, si è ben ribaltata, assumendo il volto un po’ sornione e orientaleggiante del gioiello dell’Uruguay.
Le strade si separano
I successivi anni di Recoba a Milano non saranno affatto facili: le prodezze non mancheranno, la discontinuità però neppure, e anzi finirà per imporsi sempre più come il tratto essenziale del giocatore. Il Chino lascerà i nerazzurri nel 2007, dopo aver vinto uno scudetto da comparsa, sempre più lontano dalle gerarchie che in campo contano.
Il Venezia, senza le prodezza di Recoba, non riuscirà a ripetersi nella massima serie: l’anno successivo retrocederà, per poi ripresentarsi per una sola annata in serie A. Un tragitto breve, appunto: nel 2002 il Venezia sprofonda e Zamparini che saluta la laguna, con uno sguardo alla Sicilia. 19 anni dopo la squadra veneta ci riprova: qualcuno dall’Uruguay, c’è da giurarci, farà il tifo anche per loro.