gerarchia

Tutte le squadre di calcio hanno pari dignità. Però nessuno può accampare doglianze se, su mille pagine di inchiostro, ottocento sono dedicate alla Juventus. Lo stesso dicasi per i campioni, strapagati in fondo solo per corricchiare qualche ora giocando (quindi non “lavorando”) a pallone. In entrambe i casi il pensiero logico non aiuta. Se fosse il contrario, un macchinista delle ferrovie dovrebbe accasarsi con molte migliaia di euro al mese, lasciando le solite duemila ai Frabotta o i Pezzella qualsiasi. La logica da seguire in questi casi è quella dettata dal mercato. È il mercato che fa i prezzi, la dura legge della domanda e dell’offerta. Sono il solo esterno mancino in Europa? Giusto pretendere il massimo. I giornali vendono più con Nedved che lascia inviperito lo stadio (con tutte le golose polemiche che seguono), o con il Lecce che nelle ultime 5 non ne ha vinta nessuna totalizzando 3 punti?

La risposta è talmente ovvia che con rassegnazione prendiamo il numeretto all’ufficio postale.

Le operazioni si sbrigano quando è il proprio turno. È una questione di priorità. Di gerarchia.

Oh, finalmente abbiamo avuto il coraggio di pronunciarla: gerarchia. Sostantivo magico che mette in riga tutto il resto. Con la gerarchia si annulla tutto il superfluo, si segue una linea pulita, diritta, chiara. Detto termine è assolutamente noto soprattutto per coloro che hanno fatto il militare o lavorano in ambienti militari, avvolto dal manto sacrale dell’inviolabilità, della cieca ubbidienza.

La gerarchia però ha un difetto, non si è evoluta con i tempi.

In passato, il ruolo occupato da chi aveva potere, era svolto con maggiore facilità. Era semplice prevaricare sul marmittone con la quinta elementare, normale distribuire ordini, anche incomprensibili, sulla massa prona, culturalmente incapace di proferire anche un dubbio minimo. Oggi no.

Stare seduti ai posti di comando, esercitare una supremazia gerarchica, è molto più complesso.

Oggi i militari hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, titoli di studio più elevati, le lauree ormai non si contano. Molti parlano bene l’inglese, hanno piena padronanza dei computer, in vacanza girano per il mondo, non utilizzano più la classica licenza per aiutare la famiglia a mungere le vacche o arare i campi.

Ed ecco la svolta. Il militare diventa un essere pensante e per chi comanda è più difficile doversi districare tra domande sempre più pertinenti, obiezioni più calzanti. Ci sembra di poter affermare che nel calcio stia succedendo questo. Una seconda “rivoluzione culturale” dopo quella del 1968.

Non abbiamo inventato noi la “sudditanza psicologica” o la “compensazione” che esistono da quando sulla terra è caduta una sfera di cuoio. Il fascino che potevano esercitare alcune squadre sulla classe arbitrale, alla quale veniva soltanto chiesto di sbagliare il meno possibile, è un concetto evaporato. Questa sorta di potere si è dissolta con la maggiore consapevolezza dell’arbitro stesso. Ora i direttori di gara sono diventati autonomi nel pensiero perché, probabilmente, hanno studiato molto di più dei loro colleghi di 40 anni fa. Un intreccio con il portiere non è sempre fallo, prima i portieri mascheravano le papere con cadute tipo soldato colpito in guerra. Per l’attaccante che sviene in area non è necessariamente rigore (anzi di questi tempi quasi mai), ed il turpiloquio non è più supinamente accettato, perché l’arbitro vuole sentire il calciatore esprimersi con termini più urbani, in linea con la nuova brezza del sapere.

I presidenti sono imprenditori di larghe vedute, molti parlano più lingue, vengono dall’oriente, comprano lotti di terreno o flotte aeree, non vengono più irretiti ad acquistare la famosa “amalgama” (comica scenetta calcistica del tempo che fu).

Tutto questo processo ha un costo. Ha il prezzo del biglietto di Juventus-Fiorentina, dove l’arbitro La Penna ha sicuramente commesso qualche errore (che in Spezia-Crotone nessuno avrebbe evidenziato), ma ha anche proseguito per la sua strada, lastricata di una forza, libertà e coscienza diversa.

Per onore di cronaca la Juve non ha giocato bene, ha anche avuto la sfortuna di incontrare una Fiorentina mai vista finora, nel senso che non era mai pervenuta. I bianconeri avrebbero probabilmente perso lo stesso, ma quel fallo di Dragowsky su Bernardeschi, non più di tre/quattro anni fa, sarebbe stato sempre rigore. Un tempo si sarebbero triplicate senza ulteriori riflessioni le punizioni su Chiesa, Dybala, Cuadrado (la cui espulsione è onestamente sembrata ineccepibile anche per Pirlo).

È il nuovo che avanza, e il plateale abbandono di Nedved che, da così lontano, in un centesimo di secondo, ha potuto vedere solo la caduta dell’ex viola e niente più, sta a dimostrare che la squadra con il più alto potere gerarchico in Italia si è adeguata poco e male ai nuovi titoli conseguiti dalla classe arbitrale italiana.

Rimane tutto percepito nella ferma convinzione di un eterno sacrilegio.