fbpx
klas ingesson

Se una persona continua a vedere i giganti, significa che sta ancora guardando il mondo attraverso gli occhi di un bambino

 

Era un gigante per noi figli degli anni ’90 Klas Ingesson.

Un gigante buono per noi bambini che guardavamo il mondo del pallone con occhi gonfi di stupore e scambiavamo ancora figurine seduti sui muretti.

E quella di questo ragazzone biondo arrivato dalla Svezia non mancava mai.

Un vichingo dal cuore buono lo ricordano a Bari. Il Bari di Fascetti, che Klas non volle abbandonare nemmeno quando vide il baratro della retrocessione.

Come solo i guerrieri sanno fare, caricò sulle sue spalle la sua truppa e andò dritto verso la meta: il ritorno repentino in Serie A. Da capitano.

Fascia che gli venne data – come ricorderà più tardi lo stesso Fascetti – soprattutto per lo spessore umano.

“Klas non era soltanto un ottimo calciatore, era una grande persona. Uno di quelli che si incrociano raramente nel calcio”

Ed è l’uomo che oggi vogliamo ricordare.

Non il calciatore da 100 presenze solo con la maglia biancorossa, gli 8 gol in 38 presenze (non pochi per un mediano).

Non il calciatore che porterà poi il Bologna dei miracoli a un passo dalla finale in Coppa Uefa dopo un cammino indimenticabile.

Quando pensiamo a Klas Ingesson vogliamo ricordare un uomo seduto su una sedia a rotelle che ancora entusiasta  trasmette passione e coraggio ai suoi ragazzi.

Un uomo che una volta diventato allenatore si ritrova a vivere un calvario con la stessa grinta con cui sgambettava per i campi di calcio. Piccoli o grandi che fossero.

“Il suo corpo é fragile ma la sua anima é più forte che mai”.

Così forte che quella sedia a rotelle quasi spariva e rimaneva solo il fermo immagine di un uomo gentile, ma risoluto. Un uomo che creava armonia in nome di una comunione di intenti e di obiettivi da raggiungere tutti insieme.

Un gigante che ha saputo rivelarsi tale anche quando è arrivato il momento di andare via, a passi felpati.

Un guerriero a cui nemmeno un mieloma riuscì a disarcionare l’armatura. È vero, non vinse la battaglia, ma quella gli rimase intatta.

Ingesson lasciò un vuoto incolmabile e difficile descriverlo a parole.

E almeno noi figli degli anni 90, che ancora barattavamo figurine seduti su quei muretti, abbiamo il dovere di tenere accesa la fiammella dei ricordi.

Le generazioni che verranno hanno bisogno di conoscerne gesta e levatura morale.

Ingesson ha insegnato nella sua breve vita cosa significa amare il calcio.

In modo incondizionato come solo i bambini sanno fare.

Non ci sono artefici che contino. Non ci sono social a farla da padrone. Non ci sono strategie mediatiche che tengano.

Ingesson non era Cristiano Ronaldo, ma forse qualcosa di più: lo stupore di chi guarda il gioco del pallone come se fosse sempre la prima volta.

 

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio.