Non c’è nessun onore a tacere ciò che è stato, perché non c’è vergogna in quello che è stato fatto.
Alla fine ha vinto Alex. Con l’incavo del braccio, in perfetto stile anticovid, abbiamo asciugato una perla di sudore pure noi. Anzi, mettiamo il pudore nel cassetto. Quella stilla, appena accennata di salino, è una lacrima. Piccola. Solitaria. Ma resta, senza dubbi o recriminazioni, una lacrima.
C’è riuscito bene Alex Infascelli ad ammorbidire il cuore del tifoso duro e puro, anche quello di fede diversa dai colori giallorossi. Il regista romano c’è riuscito con un finale silenzioso, le struggenti note della canzone “Solo” di Claudio Baglioni come sottofondo. Il campione è seduto, si disseta, in attesa dell’evento.
Non è la prima volta che Infascelli si cimenta con opere dal sapore biografico. Aveva già diretto un lavoro sulla vita del maestro Stanley Kubrick, vista attraverso gli occhi del suo autista, Emilio d’Alessandro.
Un successone! Per questo lavoro (S is for Stanley) Infascelli ha vinto, infatti, sia il David di Donatello 2016 come “miglior documentario” che il Master of Art Film Festival, sezione Documentary.
È freschissima, in onda su tv satellitare, l’ultima fatica di Alex Infascelli: “Mi chiamo Francesco Totti”. Docufilm dedicato al campione giallorosso e, i romanisti ci perdonino, campione di tutti. Ci sono persone, sportivi e non, che per la loro grandezza non hanno appartenenza. Certo Francesco si è radicato nel cuore della tifoseria romanista, rafforzando le sue radici con i vari rifiuti opposti alle sirene italiane e soprattutto spagnole (fu vicinissimo il sacco di Madrid). Ma come tutti quelli che hanno una statura superiore, appartengono al mondo. Sarebbe riduttivo ed offensivo imprigionare Totti nel cotone di quella maglia. La sola che lui, tenacemente, ha indossato per tutta la carriera. Ma è patrimonio di tutti il Mondiale vinto nel 2006. La gioia è stata collettiva quando ha scagliato in rete il rigore vincente contro l’Australia. E qui il documentario ci viene in aiuto. Le parole dell’attaccante illustrano perfettamente quello che le telecamere testimoniano da dietro la porta difesa da Schwarzer. Si vede l’intera squadra italiana sfilacciarsi verso destra lasciando un tenebroso corridoio d’erba per Totti (subentrato a Del Piero al 75°). Gli azzurri sembrano disinteressarsi, schiacciati dall’enorme responsabilità, allargandosi con maestrìa, cedendo palesemente il posto. Ma per andare a Berlino, evidentemente, non bastava una minestra. Totti mette da parte il cucchiaio offerto a van der Sar ad Euro 2000, percorre quei 25 metri in solitario e sfodera la mannaia, eliminando gli australiani. La voleè a Genova contro la Samp. La doppietta al Torino con soli due palloni toccati in tempi difficili. Quelli del ritorno di Spalletti, quando le apparizioni erano più sacre che profane. È impossibile riassumere in poche righe i 250 gol nella massima serie. Scarpa d’Oro nel 2007 come miglior marcatore europeo (26 reti). Il record in Champions League, avendo segnato all’età di 38 anni e 59 giorni. Ma sono gli applausi a scena aperta, teatrali, senza più colori o bandiere, ricevuti a San Siro durante un Milan-Roma, a rendere il Totti calciatore un personaggio dall’appartenenza trasversale.
Pure nelle difficoltà.
Per chi ha dichiarato amore eterno, fu difficile dimenticare e smaltire la bottiglietta di Siena. Inerme bersaglio della curva romanista, dove da buon capitano si era recato a redimere qualche animo agitato.
Alla fine siamo sopravvissuti alle emozioni. Chi immagina sia un documentario dove parlano i protagonisti è in errore. Chi pensa ci siano lunghi spezzoni nei quali il capitano si racconta apertis verbis davanti alle telecamere si sbaglia. È nell’inatteso che Infascelli gioca la sua partita. Non ci sono interventi banali (proposti in altri film di sport) di genitori, parenti, moglie, amici di sempre, compagni d’arme o quant’altro. Nello scorrere della pellicola si ricordano brevemente Sensi, che conferma la permanenza di Francesco in giallorosso, o le poche parole di Lippi all’uscita dalla clinica dove Totti era stato operato dopo il brutto infortunio occorsogli in Roma-Empoli. Ma queste sono immagini dell’epoca. Non si troveranno interviste costruite appositamente per il documentario. Neanche con i vari allenatori, come era lecito aspettarsi. Ciò perché il regista non ha voluto che una storia di vita e di sport si trasformasse in facile elegìa.
Quello di Alex Infascelli è soprattutto un film di immagini, dove la realizzazione fonetica tipica di Totti, che si racconta per tutto il documentario, fa da contrappunto, senza distrarre lo spettatore dal girato.
La pellicola va avanti tra vecchi ricordi e storie più recenti (come quella del matrimonio, con migliaia di tifosi in attesa) e non poteva che terminare con l’ultima partita. È il 28 maggio 2017.
Sono passati più di tre anni ma restano ancora vividi i frames di questo campione immortale per tutti gli appassionati, ma che rimane l’unico e “solo” (come nella canzone) nel cuore di tutti i tifosi romanisti.