repice

A tu per tu con Francesco Repice, voce principe di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto“, storica trasmissione radiofonica di Rai Radio 1. Repice, nato in Calabria ma formatosi nella Capitale dove tuttora vive, appartiene a quella generazione di giornalisti cresciuta nel mito dei vari Sandro Ciotti ed Enrico Ameri, quando la radio scandiva i pomeriggi domenicali prima di avvicendarsi con la televisione dove, archiviati gli incontri di giornata, il saluto di Paolo Valenti con il suo popolarissimo “Novantesimo Minuto”, dava finalmente il “la” alle immagini tenendo incollati allo schermo milioni di italiani, pronti a cibarsi delle azioni salienti che la radio aveva raccontato qualche ora prima. Euro 2020 ha rappresentato, per Repice, la definitiva consacrazione. Memorabili i suoi commenti dopo le sfide contro Spagna e Inghilterra, fino all’apoteosi finale condita dal magistrale monologo dedicato al nostro Stivale, per poi indugiare sulla meravigliosa Tropea, terra delle sue origini. Un commento di rara bellezza, da pelle d’oca e diventato subito virale, che lo ha proiettato di diritto nell’olimpo dei cronisti di sempre. Repice incarna ancora, in una certa misura, un calcio antico, quello più genuino e romantico, con quel timbro di voce inconfondibile e suadente, scandito da un eloquio velocissimo, quasi in apnea, con il quale ci racconta le gesta dei ventidue in campo. Un ritmo incalzante e frenetico, il suo, unito a una competenza calcistica (e non solo) che ne fanno uno dei giornalisti più importanti di mamma Rai. Lo stesso che esibisce ai nostri microfoni parlando dei suoi esordi, dei cambiamenti del calcio nostrano fino alla nuova Nazionale di Luciano Spalletti.

Come nasce il Repice radiocronista?

“Da ragazzino, giù in Calabria, mi cimentavo con le cronache della serie C e da allora non ho più smesso. E’ una passione cui dedico tutto me stesso, è un mestiere bellissimo che ti porta un po’ in giro per il mondo e, nonostante i mille sacrifici, ne vale la pena. Raccontare le immagini in diretta, senza pause, solleticando la fantasia dell’ascoltatore, è per me una vera e propria missione. Ho avuto la fortuna di intraprendere questa professione, verso la metà degli anni Novanta, con maestri straordinari come Riccardo Cucchi e Bruno Gentili, che mi hanno insegnato molto e che ringrazierò sempre. Dopo gli esordi sulla carta stampata dove mi occupavo di politica ho virato con decisione sul calcio, la mia passione di sempre, e da allora non l’ho più lasciato”.

E Ciotti?

Sandro è stato un maestro inarrivabile, ho tantissimi aneddoti, potrei scrivere un libro. Aveva una cultura straordinaria, appena arrivai in Rai mi ammonì subito e feci tesoro nel tempo dei suoi preziosi consigli. Aveva la fisima delle carte con le quali sottoponeva a una vera e propria tortura il malcapitato di turno. Con Ameri, altro formidabile collega e maestro, formava una coppia meravigliosa. Ma il mio mito è un altro…”

Ci dica pure…

“Sto parlando di Victor Hugo Morales, un monumento della radiofonia mondiale che ho avuto la fortuna anche di conoscere. Il cronista e scrittore uruguaiano mi è entrato nel cuore per sempre con quel commento straordinario alla rete clamorosa di Maradona nel celebre quarto di finale contro l’Inghilterra, quando Diego dribblò mezza squadra inglese vendicando il suo popolo dopo la sconfitta, qualche anno prima, alle Malvinas. Morales, nel descrivere quella meravigliosa prodezza, non adoperò solo parole ma si servì anche di suoni che scandivano i dribbling di Maradona fino alla rete finale. Un autentico fuoriclasse”.

A proposito di Maradona: chi è stato più forte tra lui e Pelè?

“Io preferisco Diego. Ho avuto la fortuna di incrociare due volte l’asso argentino. Diego è uno che si è messo di traverso ad Havelange prima e Blatter poi. Questa è la vera grande differenza con Pelè, altro fuoriclasse meraviglioso e superbo che, però, al tempo della dittatura in Brasile, si girò dall’altra parte. Per me Diego Armando Maradona è stato un esempio anche per i più giovani. Mi rendo conto di essere impopolare, l’opinione pubblica non la pensa esattamente come il sottoscritto. Ma solo chi cade ed è capace di rialzarsi, a mio avviso, merita di essere considerato un vero uomo. C’è sempre una possibilità, c’è sempre l’occasione del riscatto. Nessuno viene mai condannato per un errore. Maradona nel celebre film di Kusturica parla in terza persona di sé e nell’intervista finale al regista dice: “Pensate che cosa vi siete persi. Pensate se Maradona non fosse stato un tossicodipendente. Mi hanno fermato pensando che la cocaina potesse migliorare le mie prestazioni. Mentre la cocaina mi ha depotenziato di almeno il 50% delle mie possibilità. Pensate a cosa vi siete persi”. E’ stato unico”.

La radiocronaca più emozionante?

“Barcellona – Manchester United,  finale di Champions League a Londra, nel 2011, soprattutto per la storia di Abidal che subì, qualche settimana prima di quell’importantissima sfida, un intervento molto delicato, Quella sera Eric andò miracolosamente in campo da capitano e continuò a indossare la fascia anche al momento dell’ingresso in campo di un’icona catalana come Puyol. Dopo il trionfo, la squadra blaugrana salì i gradini gloriosi di Wembley, e fu proprio Puyol a permettere all’amico Abidal di alzare per primo la Coppa sotto il cielo di Londra. Una serata da pelle d’oca”.

Quella più difficile?

“La sera della morte di Filippo Raciti, nel febbraio 2007, in seguito ai violenti scontri fuori dallo stadio Massimino in occasione del derby tra Catania e Palermo. A parte le 48 ore al microfono senza mai staccarmi, provai tanta rabbia mista a rassegnazione. Un padre di famiglia aveva perso la vita in un modo troppo ingiusto, fu una pagina dolorosissima per il nostro calcio”.

Un aneddoto curioso di tanti anni di lavoro…

“Allo stadio Olimpico, nel maggio del 2009, andava di scena la finale Champions tra Barcellona e Manchester United. Ero la seconda voce di Riccardo Cucchi. Durante l’ intervallo scesi dalla mia postazione per prendere una bottiglietta d’acqua. A un certo punto mi imbatto in un tizio vestito color panna, mi chiedeva se avessi un accendino. Quel signore era Johan Cruijff, uno dei miei miti giovanili, che quella sera era lì per una emittente catalana. Non capii più nulla, mi tremavano le gambe, rimasi impietrito per l’emozione. La stessa che provai quando, a Coverciano, mi trovai di fronte Gigi Riva”.

Lei in gioventù ha frequentato la curva della Roma: che giudizio ha degli ultras?

“Peccato che in Italia si parli spesso a sproposito del fenomeno ultras e ve lo dice uno che in curva, quella romanista, ha vissuto uno dei periodi più belli della sua vita.  La curva, microcosmo variegato, forgia, seduce, insegna”.

Come nasce la passione per la Roma?

“Da piccolo abitavo in zona Conca d’Oro e spesso i miei genitori mi lasciavano a casa di alcuni parenti. Un giorno mi trovai alle prese con una pista di macchinine, me ne colpì una in particolare, aveva i colori giallorossi. Da lì è nato il folle amore”.

Una sua foto sul calcio attuale?

“Mi sembra molto show business e poco sport. I disequilibri all’interno del campo sono evidenti, lo spettacolo è anteposto ormai a tutto, non solo davanti al risultato ma anche forse davanti al senso del gioco. Le nuove tecnologie come il VAR, il modo di spiegare il pallone a chi deve entrare in campo sono, a mio avviso, false complicazioni che non hanno ragione di esistere. Spero che tra poco si torni a una visione più equilibrata di questo sport meraviglioso. Vado al di là delle elucubrazioni mentali di qualcuno, penso che il calcio sia una cosa semplice, è uno sport dove il più forte vince e quello più bravo tecnicamente salta l’uomo creando la superiorità numerica. I quinti di centrocampo, i braccetti (tanto per citare le espressioni più alla moda), sono solo fandonie. Il pallone vero è un’altra cosa”.

Il campionato italiano volge al termine: che stagione è stata?

“Ha vinto il più forte, complimenti a Simone Inzaghi e ai suoi ragazzi. Il nostro torneo ha fatto emergere valori importanti e lo dimostra il cammino delle nostre squadre nelle competizioni europee, con due finali portate a casa dopo il clamoroso tris dello scorso anno. Il mio giudizio non può che essere positivo anche perchè stanno emergendo dei tecnici di sicuro valore come Gilardino, De Rossi e Baroni”.

Stagione non ancora finita: gli Europei incombono…

“Sono molto curioso. Le squadre più rinomate, a mio giudizio, potranno giocarsi il titolo compresa l’Italia di Luciano Spalletti. La squadra azzurra magari non ha giocatori di particolare spessore a livello tecnico ma ha un’organizzazione di gioco che, grazie al suo grande allenatore, potrebbe supplire a certe carenze. Ce lo auguriamo tutti”.

A proposito di Europei: come visse la doppia, palpitante lotteria dei rigori, tre anni fa, in Inghilterra?

“Le sfide contro Spagna e Inghilterra furono una sofferenza indicibile. Sono figlio del 1984, ero in curva Sud quando la mia Roma si arrese ai rigori al Liverpool, una serata che mi ha segnato profondamente, ancora oggi se ci penso mi vengono i brividi. Ho ricevuto qualche critica (legittima, per carità) sulla eccessiva enfasi che ho dedicato ai rigori della semifinale, ma in certe circostanze, credetemi, non è facile mantenere l’aplomb che s’impone a chi fa il mio mestiere. Viene inevitabilmente fuori il mio trascorso di curva, è più forte di me. Quanto al rigore decisivo di Jorginho, stavo per dire che uno specialista come lui non poteva sbagliare in quel momento topico, ma da buon calabrese scaramantico me ne sono ben guardato restando zitto fino all’esultanza finale: una goduria incredibile dopo una gara soffertissima. E’ stata quella, a mio avviso, la vera finale”.

Un successo che ci ha riportato indietro di tanti anni, alle notti magiche del 2006 fino al 1982…

“Trovo delle analogie più col trionfo di Bearzot. Erano gli anni di Piombo, l’Italia viveva una sorta di guerra civile, la tensione era alle stelle, potevi finire sul treno sbagliato, sono stati anni complicati. Paolo Rossi (ragazzo straordinario che ho conosciuto in Rai) e compagni hanno avuto il merito di riportare un intero Paese, impaurito e scosso, nelle piazze e nelle strade. Stessa cosa, a distanza di quasi quarant’anni, ha fatto Roberto Mancini: grazie alle gesta della sua Nazionale la gente si è di nuovo riversata in strada dopo un anno e mezzo di paure e ansie per il Covid”.

Una vita, la sua, intensa che conosce poche pause: quali sono i suoi passatempi preferiti?

“Amo da sempre il mare, passione che ho ereditato da mio padre, calabrese di Tropea, il borgo dei borghi, il luogo della mia anima, il mio tutto. Appena posso, scendo in Calabria a pescare in quelle acque cristalline con gli amici di sempre. Tropea è un paese particolare e unico, non lo baratterei con nessun altro posto al mondo. Oltre alla pesca, la mia altra grande passione sono i cavalli, animali che adoro”.

intervista a cura di Libero Marino