Di Bartolomei

Un eroe. Non l’eroe che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno. Un paladino, un cavaliere senza macchia“.

Se Christopher Nolan avesse diretto un film su Agostino di Bartolomei, forse, avrebbe descritto così anche lui, con le stesse parole usate per il suo Batman ne Il Cavaliere Oscuro, perché Ago (o Diba), come era soprannominato da amici e tifosi, era questo, un vero Eroe silenzioso mascherato da anti-Eroe, un Uomo che non amava le luci della ribalta, l’eccentricità o gli inutili fasti di un mondo nel quale è stato però protagonista grazie alla sua indiscutibile classe dentro e fuori dal campo di gioco.

Agostino Di Bartolomei nasce l’8 aprile del 1955 a Roma, zona Tor Marancia, ed è stato uno di quei calciatori, come per pochissimi è accaduto, che si è potuto definire romanista nell’animo fin dai primi vagiti. Inizia a muovere i primi passi attorno ad un pallone nell’oratorio del San Filippo Neri per poi finire al campo dell’OMI, realtà del calcio romano, dove riesce a mettere in risalto molto presto le sue doti, finendo di li a poco nel vivaio della Roma. Il fuoriclasse romano non impiega tanto tempo per mettersi in mostra e con i giovani giallorossi vince il campionato Primavera, di fatto, il salto in prima squadra avviene nel 1972, anno in cui esordisce a Milano contro l’Inter (0-0) il 22 aprile, subito dopo aver compiuto 17 anni.

Nel 1975 il talento romanista andò per un anno in prestito al Vicenza per fare esperienza, dove appunto ebbe modo di continuare a cresce per poi tornare, nella stagione successiva, nella squadra che amava e per la quale divenne immediatamente un simbolo. “OOOOO Agostino! Ago, Ago, Ago, Agostino gol!” era uno dei cori intonati per lui allo stadio. La gente stravedeva per Diba, vedeva in lui quel Capitano che interpretava il ruolo nel vero senso della parola, che era innamorato della sua città, era il primo supporter della sua squadra e stravedeva per i suoi tifosi, tanto che una volta dichiarò: “Esistono i tifosi di calcio, e poi esistono i tifosi della Roma”.

Tra il 1976 ed il 1984, Agostino Di Bartolomei, oltre che capitano, divenne protagonista indiscusso di quella Roma che fu in un certo senso la sua vera ragione di vita, collezionando complessivamente tre Coppe Italia (’80, ’81, ’84) ed uno Scudetto nella stagione ’82-’83. Con la Roma ha vissuto senza dubbio le due emozioni più forti, anche se diametralmente opposte, quella della conquista del tricolore per l’appunto, e la sconfitta con il Liverpool nella finale della Coppa dei Campioni, allo Stadio Olimpico, del 1984, in un giorno peraltro, quello del 30 maggio, maledetto per quello che rappresenterà poi nel suo futuro. Nonostante la dura sconfitta contro i Reds, bisogna però sottolineare come Di Bartolomei fu uno degli artefici di quella cavalcata dei giallo-rossi verso la finale di Roma e di come, da vero capitano, si assunse tutte le sue responsabilità anche nei momenti chiave del match, come ad esempio il coraggio di calciare (e segnare) uno di quei rigori che determinarono poi l’assegnazione del trofeo, quel coraggio che altri, a differenza sua, non trovarono.

La tecnica calcistica di Ago era sopraffina, una delizia per gli occhi degli amanti del calcio, così come la sua tenacia, dedizione e professionalità verso uno sport che prima gli diede e poi contribuì, forse indirettamente, a togliergli tutto. Roccioso fisicamente e potente, la sua visione di gioco lo rendeva un leader in campo che riusciva a gestire una formazione che negli anni venne costruita attorno a lui, anche grazie all’intelligenza di Nils Liedholm che, posizionandolo davanti la difesa, riuscì a sfruttare al meglio tutte le sue doti tecniche e nello stesso tempo fece in modo di sopperire a quella che, forse, era la sua unica pecca sul terreno verde, la velocità.

Il suo carattere in apparenza chiuso, il suo sguardo, a tratti, malinconico, seppur determinato, lo faceva figurare come una persona schiva, sulle sue e di poche parole, anche se concreto nei fatti. Giuseppe Giannini, romanista anche lui e capitano dei giallo-rossi per 9 stagioni, ha ricordato così Ago a Gianluca Di Marzio: “Era un punto di riferimento per ognuno di noi, grandi e giovani. Si preoccupava di tutti, dai giocatori fino ai magazzinieri. Qualsiasi problema lo faceva presente alla società, tutto nell’interesse della Roma. Parlava poco ma con i compagni scherzava spesso, sempre con la sua classe”.

Della stessa idea Pietro Vierchowod, anche a dimostrazione del fatto che, come per chiunque, per giudicare Diba, bisognava prima conoscerlo meglio: “Arrivavo in prestito dalla Sampdoria, e da esterno Agostino mi sembrava una persona molto chiusa. Ma quando l’ho conosciuto era l’opposto. Disponibile, simpatico. Si faceva in quattro per aiutarti. Forse si mostrava chiuso quando voleva mettersi al riparo da alcune situazioni”.

Essendo stato Di Bartolomei il capitano di una delle due formazioni capitoline, parlando di lui, risulta impossibile non far riferimento anche alla stracittadina, una partita per la quale Ago provava sulla sua pelle quello che un qualsiasi tifoso romano, laziale o romanista che fosse, provava sulla sua, come confermato anche dalle parole del figlio Luca: “Cercava sempre di trasmettere sicurezza all’esterno, ma papà il derby lo viveva come un terremoto dentro”. E cosa si diceva di lui sull’altra sponda del Tevere? Per la stragrande maggioranza dei tifosi era visto, ovviamente, come un rivale, ma mai come un nemico, questo anche grazie a quella classe fuori dal campo cui si faceva riferimento prima da parte del capitano giallo-rosso, per il quale, anche essendo una vera e propria bandiera romanista, veniva nutrito grande rispetto, ovviamente ricambiato.

Dentro e fuori dal campo, è stato il mio più grande amico che ha vestito la casacca della Roma” ha ribadito più volte Bruno Giordano, romano e stella biancoceleste. “Ricordo prima di un derby un pranzo insieme a San Cesareo, si parlò solo della stracittadina. Spesso veniva a trovarmi anche a Trastevere. Conservo gelosamente una foto ricordo con Di Bartolomei, Conti e Di Chiara al mare, non lo dimenticherò mai, sia come avversario che come uomo”.

Nel 1984, dopo 237 gare e 50 gol segnati, Di Bartolomei salutò la Capitale lasciando definitivamente la Roma per seguire Liedholm al Milan, complice un ciclo che si apprestava a terminare e le incompatibilità tecniche con Sven-Göran Eriksson, nuovo allenatore del club giallo-rosso, il quale non vedeva il talento di Tor Marancia al centro del suo progetto. Il 26 giugno del 1984 Diba gioca la sua ultima gara in giallo-rosso e lo fa regalando ai suoi tifosi un trofeo, la Coppa Italia, la quinta per il club capitolino. Nella mente dei romanisti è indimenticabile la foto che lo ritrae rivolto verso la sua gente, con la fascia da capitano sul braccio sinistro, il tricolore cucito sul cuore e la Coppa alzata al cielo con il braccio destro come ultimo saluto e regalo verso i tifosi che gli dedicano uno storico quanto emozionante striscione: “Ti hanno tolto la Roma, non la tua Curva“.

Ai rosso-neri Ago gioca per tre stagioni collezionando in totale 123 presenze e 14 gol, di cui uno proprio alla sua squadra del cuore seguito da un’esultanza verso i suoi nuovi tifosi ma che mascherava anche tanta rabbia per l’addio al club che l’aveva cresciuto, con cui aveva vinto e che amava, ma che nello stesso tempo non aveva fatto nulla per non lasciarlo andar via.

Dopo le tre stagioni trascorse in maglia rosso-nera, Di Bartolomei giocò un anno al Cesena prima di chiudere la sua carriera a Salerno dove con la Salernitana giocò 2 anni in Serie C e con cui raggiunse una storica promozione nella serie cadetta dopo 23 anni d’attesa e tentativi falliti.

A seguito del ritiro dalla carriera agonistica, fece l’opinionista Rai durante i Mondiali di calcio di Italia ’90 e si trasferì con la famiglia a Castellabate, paese d’origine della moglie Marisa, anche a conferma di quello che era la sua persona, come detto, lontano dalle luci della ribalta, nonostante il campione che dimostrò d’essere sul campo. Nel paesino campano dove viveva fondò una scuola calcio a cui diede il suo nome, ripartendo dai bambini con l’intento di fargli amare fin da piccoli quello sport che gli aveva dato tanto ed a cui lui aveva dedicato la sua vita, intendendolo però a suo modo, ovvero in una visione pulita dello stesso, volta al rispetto delle regole e all’etica del gioco: “A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”.

Sul reale motivo per cui Di Bartolomei volle farla finita ne sono state dette tante, problemi finanziari, depressione, il fallimento del tentativo di unire due mondi come il suo e quello in cui aveva vissuto per anni, così come quella chiamata mai arrivata dalla Roma per ricoprire qualche incarico dirigenziale che, a detta di chi lo conosceva bene, ha aspettato invano per tanto tempo, forse troppo. Solo lui poteva sapere cos’aveva dentro, ciò che realmente ha provato fino a qualche secondo prima di compiere il gesto estremo in quel maledetto 30 maggio 1994, a 10 anni esatti dalla sua più dura delusione calcistica. Un gesto, il suo, che lo portò a prendere la sua Smith & Wesson 38 special per indirizzarsi un colpo dritto al cuore, ponendo fine a quelle che riteneva essere le sue insuperabili sofferenze, lasciando un vuoto, in alcuni casi incolmabile, in chi lo ha amato, ammirato e rispettato e che tuttora continua a farlo.

Lucide, toccanti e quanto mai adatte a rappresentare la figura di Agostino, le parole con cui lo ricordò Gianni Mura: “E così continuerò a ricordarlo, col suo senso del dovere, della lealtà, della dignità. I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile“.