L’11 settembre del 2022 rappresenterà a lungo una pagina significativa per la storia dello sport italiano: l’impresa della pallacanestro azzurra e la coppa del mondo sollevata dalla giovane e assai talentuosa selezione del volley nostrano si sedimenteranno nella mente degli appassionati non solo calciofili e perfino dei critici del Bel Paese. Nonostante ciò, e neppure la faccenda ha suscitato un’eccessiva meraviglia, la santissima Trinità dei  quotidiani sportivi italiani ha preferito dedicare le primissime e sudate carte dei rispettivi giornali alle infuocate e veementi polemiche post Juventus-Salernitana. Nulla di nuovo sotto il sole, in fondo, e per i meno ipocriti (così si presentano) è inevitabile che sia così: il football attrae, produce e consuma assai più degli altri giochi e giochini, destinati a contendersi le pagine delle retrovie, in nobile compagnia di previsioni meteo, oroscopi e illustri necrologi. E’ allora sacrosanto o almeno realisticamente accettabile tutto ciò? La dotta missione del calcio è quella di lasciare in ombra tutto ciò che, in verità, vivacchia appena nel cuore di tifosi e spettatori?

Il football ha in sé qualcosa di speciale; una pagina intitolata “Il Calcio Quotidiano” non avrà certo troppa difficoltà ad ammettere ciò. L’universalità del “più bel gioco del mondo” (così lo definiva Brera), la sua relativa semplicità (un pallone e due cancelletti arrugginiti possono essere sufficienti ad improvvisare memorabili partitelle) rappresentano una spinta propulsiva notevole all’alimentarsi di una passione che ci lega e talvolta ispira. Non si negherà affatto, poi, l’importanza che ha avuto il calcio nella costruzione di un’identità collettiva all’interno della tribolata storia del nostro Paese: un ‘identità un po’ deboluccia, osserveranno maliziosi in molti, e però pur sempre qualcosa. Il Football sa scandire il tempo delle nostre esistenze come poche altre questioni; anche chi lo disprezza o lo rigetta, si trova non di rado a prendere posizione nei suoi confronti.  Si riconoscerà anche, se non fosse abbastanza, la centralità economica del pallone: il calcio è un’industria – lo si ripete non raramente- e forse ce ne eravamo perfino accorti.

Fatte queste dovutissime precisazioni (qualcuno potrebbe accusarci di aver rinnegato la Fede!), qualcosa è opportuno dire, anche a costo, in quanto scrittori e appassionati di calcio, di abbandonare per un attimo il centro del palcoscenico degli sport. E si dirà, dunque, che quanto accaduto lunedì 12 settembre ha rappresentato l’ennesima occasione persa per il giornalismo sportivo (non solo calcistico)  italiano: le risse da Var (per quanto originate da un episodio certamente grave, e quindi meritevole di analisi) hanno cercato di imporsi al centro di ogni discussione, generando delusione in chi, magari, quel giorno una prima pagina in rosa o in bianco l’avrebbe conservata volentieri sullo scaffale dei ricordi più belli.

Il quotidiano su carta, come è noto, non vive da tempo i suoi anni migliori: le televisioni, il web, e forse la pigrizia hanno contribuito ad azzoppare un mezzo che, in un passato nemmeno così lontano, sapeva nutrire di notizie fresche e sincere speranze una percentuale non irrilevante del pubblico italiano. In questo non troppo promettente scenario, dunque, la logica del mercato rischia di diventare una triste strategia di sopravvivenza: il calcio vende di più, c’è poco da essere moralisti. Ed eccoci, però, a uno dei punti nevralgici della faccenda: siamo davvero certi che una primissima pagina dedicata all’impresa della pallacanestro e al trionfo del volley avrebbe riempito (ancora) meno le già rattoppate tasche di editori e direttori?

Vi è in tutto ciò, forse, anche un pregiudizio quasi atavico nei confronti del popolo (anche di quello sportivo) italiano: siamo poverelli, provinciali, assai affezionati allo scandalo e decisamente poco all’effettiva condivisione e conoscenza. Questa mancanza di cultura sportiva (e questo sì che è decisamente ipocrita) è di frequente condannata tra le sacerdotali colonne degli stessi giornali, che, in realtà, in modo più o meno diretto, anche poi la coltivano, cercando riparo dietro le ragioni del “tirare a campare”. Ancora più snervante, infine, è l’insistenza sull’inferiorità, in questa direzione, di noi italiani rispetto alle purissime e civilissime nazioni straniere: siamo tanto brutti, zotici e violenti, e forse ce lo ripetiamo costantemente con un qualche perverso piacere. Della retorica di chi condanna lo “scandalo” dell’ignoranza, per poi trasformarlo immediatamente in un’occasione di guadagno, non se ne può davvero più,  così come dei cattivi esempi di chi, sempre e comunque, si sente in dovere di manifestare verginità e buon pensiero; non se ne può più, se poi, in fondo, il gossip e le risse divengono il pane quotidiano dei buoni maestri, tra ventate di progressismo, giusti sentimenti e “fair play”. Non se ne può davvero più, se poi, in realtà, anche l’informazione calcistica manifesta la propria incapacità di mettersi a lato, di relativizzarsi, nei momenti in cui appare doveroso farlo; se la cronachetta prende a calci ciò che può ambire legittimamente alla storia (dello sport, si intende), allora un problema esiste, e non è certo del tifoso medio, ma anzi di tutti coloro che contro quest’ultimo spesso imprecano, per poi inginocchiarsi all’altare dell’interesse: insomma, fingiamo bene di combattere il “marcio”, per poi ammassarlo al meglio all’interno dei nostri sepolcri imbiancati, facendone la scorta per i mesi più freddi (e almeno qui il gas non c’entra).

Se il movimento calcistico italiano desidera mantenere la sua centralità, sarebbe opportuno, forse, interrogarsi anche sugli effetti di una bulimia che, sul medio lungo-periodo, rischia di essere una trappola mortale per il nostro sport; ricordare che, al di là di tutto, esistono spazi differenti e meritevoli di attenzione può essere vitale anche per il football, evitando che la meraviglia e il fascino si convertano, prima o poi, in un senso di nausea e rigetto. Un’altra occasione l’abbiamo avuta; per l’ennesima, volta, però, l’abbiamo gettata alle ortiche.