Era il 18 novembre del 2020. Una vita fa. Sempre sulle pagine de ilcalcioquotidiano, avevamo recensito il docufilm: “Mi chiamo Francesco Totti”, non lesinando ammirazione per la sentimentale positività che ha accompagnato la pellicola. Ora troviamo il lavoro di Alex Infascelli tra le nomination al David di Donatello 2021 (11 maggio prossimo). La vita di Totti, quella di un ragazzo che in fondo ha soltanto giocato a pallone, contenderà il premio, nella sezione “miglior documentario”, ad altri quattro temibili concorrenti, tra i quali citiamo The Rossellinis girato da Alessandro Rossellini, nipote del grande regista Roberto (Roma città aperta, Germania anno zero), non uno qualsiasi. Ma le magìe di Francesco non si sono limitate alla riconosciuta ars pedatoria ammirata sul terreno di gioco. Finora sembra che tutto ciò in cui si è cimentato l’ex campione del mondo sia stato trasformato in oro. La sua autobiografia: “Un Capitano”, scritta con la collaborazione del giornalista Paolo Condò, si è rivelata uno dei 10 libri più venduti del 2018, con circa 100mila copie all’incasso. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno, il timido ragazzo di Porta Metronia, si sarebbe misurato, con lo stesso onore mostrato in campo, con autori del calibro di Andrea Camilleri ed Elena Ferrante, autrice de “L’Amica Geniale”. Siamo ora nel presente, a dover decifrare, dopo le sei puntate della miniserie TV: “Speravo de morì prima”, il Totti privato, mostrato al grande pubblico dal regista piemontese Luca Ribuoli. Luca è sicuramente un professionista importante, ha girato molte serie, tutte di grande successo tra le quali spiccano La Squadra, Medicina Generale, Il Commissario Manara, Don Matteo, La mafia uccide solo d’estate. In questo ultimo lavoro abbiamo compreso, condividendone il senso, la volontà di limitare al massimo le immagini di repertorio con le giocate del campione. La qual cosa non avrebbe aggiunto alcunché alla nota figura di asso del pallone di Francesco, con le sue imprese già ampiamente sviscerate nelle più appropriate sedi sportive. Abbiamo altresì condiviso la volontà di svelare le fragilità di un ragazzo che non si rassegna a dover lasciare il suo grande amore: il gioco del calcio. Francesco vuole solo giocare, sorpassa la sua età con il pensiero, non ci sta a dover abbandonare il suo mondo. Per questo si lacera e passa notti insonni. Ma oltre a ciò, lo scorrere delle puntate lascia più di qualche interrogativo che affronteremo in seguito. Per prima cosa, preme evidenziare che il lavoro di Ribuoli non soltanto è stato trattato con la consueta ironia dal critico Sergio Gamberale: “speravo de morì prima di vederlo”, ma biasimato, con tagliente garbo, da Giancarlo Dotto. Il noto giornalista si chiede: “perché il finale di partita di un mito calcistico sia raccontato come il diario di un minorenne dal pensiero reticente”. Ci siamo imbattuti in altre critiche, specialmente il grado di giudizio con il quale escono dalle sei puntate le figure di Antonio Cassano e Luciano Spalletti. Francamente non ci sembra una cosa di primaria importanza. Cassano non gioca più, e lo stesso asso barese ha più volte ammesso di essersi accorciato la carriera con il suo carattere da gianburrasca. Spalletti ritornerà ad allenare senza alcun nocumento. Nessuno, soprattutto i non romanisti, ricorderà quei litigi che sì, ci sono stati, ma assolutamente comuni a tutti quegli aspri confronti che si possono avere in uno spogliatoio. Se così non fosse ci vorrebbero decine di puntate per spiegare quando il vincente Napoli di Maradona rovinò tutto ribellandosi ad Ottavio Bianchi, oppure un documentario investigativo sull’improvviso e mai del tutto chiarito strappo tra Gasperini e il Papu Gomez. Lasciamo stare. Come dicevamo, i nostri interrogativi sono altri. Ci piacerebbe che Cassano approfondisse l’episodio dell’assegno smarrito. Anche i bambini sanno che un titolo bancario intestato ad personam, ad un vip del sistema, per una somma così forte, non sarebbe stato incassato da nessuno al mondo. Bastava telefonare e far annullare l’operazione. Ci siamo chiesti perché ad un certo punto, un film sulla vita di Totti, è sembrato invece incentrato, per almeno due puntate, sull’interiorizzazione del personaggio Spalletti, evidenziandone il carattere toscano/levantino. Un film sugli allenatori sarebbe un’idea, però non era questa la sede. Ma quello che vorremmo veramente conoscere è perché, al pur bravo Castellitto, è stato chiesto di impersonare Totti in uno stato di catalessi per tutta la durata della fiction. Nelle varie fasi del lavoro televisivo, Totti-Castellitto non ha mai cambiato espressione, un lampo negli occhi, una piega nelle labbra, totale assenza dei marcatori di Duchenne. Il Totti che vediamo è afasico, continuativamente alle prese con una latente sonnolenza espressiva sommata ad una voce monocorde, più piatta del Salar de Uyuniboliviano. Si sa che l’ottavo Re di Roma è sempre stato piuttosto introverso, refrattario ai lunghi discorsi, con una voce potente ma infrattata tra gola, lingua e denti. Ma farlo apparire perennemente apatico, come bloccato da una permanente stimolazione dei ricettori dell’istamina e dell’adenosina, appare una forzatura scenica.
Forse il personaggio Francesco avrebbe meritato qualcosa di meglio, una normale reattività da essere umano, pari a quella esibita sui prati verdi.
Il Totti voluto da Ribuoli è intimista e impermeabile, una perfetta e moderna riedizione del personaggio di Meursault, il protagonista del romanzo di Camus “Lo straniero”, divenuto uno dei simboli dell’esistenzialismo francese.
Meursault è indifferente agli accadimenti della vita, gli accidenti non lo sconvolgono né toccano.
Ma noi sappiamo che Totti, finalmente quello vero, si commuove e piange in quel 28 maggio 2017.
Solo per lui Omero avrebbe prontamente ribaltato la trama dell’Odissea e Francesco sarebbe diventato Penelope, pronto a disfare tutte le trame di gioco al termine dei minuti regolamentari per poi ricucirle daccapo alla partita successiva, ad libitum.
Per l’eternità.