la partita

Un libro monumentale, un’opera che va oltre il calcio. E’ “La Partita“di Piero Trellini (Mondadori, 2019) giovane e brillante giornalista romano, che vanta collaborazioni con la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero e il Manifesto. Un romanzo straordinario, commovente, dedicato alla celebre sfida Italia – Brasile di Spagna 1982, la svolta per i ragazzi di Bearzot che riscrissero la storia grazie alla tripletta del redivivo Rossi battendo i carioca di Zico. Una vittoria consegnata agli archivi del nostro calcio, che spalancò all’Italia, costretta a vincere per effetto della differenza reti, le porte della semifinale contro la Polonia, preludio all’epica serata di Madrid. Imponente e sempre coerente l’impianto narrativo (oltre 600 pagine) nel corso del quale Trellini, con una prosa godibilissima, ricostruisce il contesto storico del periodo, indugiando la sua lente su tante storie che in una certa misura rinviano al famoso pomeriggio del Sarrià. Ci sono dentro gli eroi eponimi (su tutti Pablito Rossi, bersagliato da certa critica ingenerosa e capace di risorgere proprio contro i brasiliani), i rapporti non sempre idilliaci tra padri e figli (commovente la storia in apertura dell’arbitro ebreo Abraham Klein), i giornalisti che seguono la truppa azzurra in Spagna come Brera, Arpino, Sconcerti e un debuttante, a dispetto dell’età, Mario Soldati. Non pago del successo di tre anni fa, Trellini ha recentemente riproposto il suo romanzo in chiave iconografica. Ne è scaturito un lavoro più agile ma non meno interessante del primo, impreziosito da tante foto inedite (curiosi gli appunti di Brera) di quel caldo pomeriggio di 40 anni fa. Un lavoro straordinario, senza precedenti, una magnifica ossessione (come è stato ribattezzato dalla critica) da conservare gelosamente negli “scaffali dell’autorevolezza”. Incontro Trellini a Isola del Liri, in uno degli angoli incantati del Lazio, nell’ambito del “Festival delle Storie”, e non posso che volgere la nostra lunga e appassionante chiacchierata, cui volentieri si concede, in una intervista.

Da dove nasce l’idea di raccontare Italia-Brasile?

“Dalla sua indiscutibile bellezza. Non credo ne esista un’altra così nella storia del calcio. È già un romanzo, possiede una sua struttura narrativa. E la sua forma drammaturgica perfetta è stata per me il primo motore. La classifica concedeva al Brasile anche un pari, imponendo all’Italia una sola possibilità: la vittoria. Così l’andamento del risultato si è trovato a creare una travolgente alternanza di stati d’animo. Novanta minuti di bellezza emotiva. Sono partito da questo. In seguito ho voluto seguire i fili che avevano condotto alla partita. E il vero lavoro è iniziato lì”.

Il libro è diventato di culto. Ha vinto molti premi, tra cui il Bancarella…

“La sera del premio pensavo che il favorito fosse Panatta. Era il suo anno. Aveva appena compiuto 70 anni, si sarebbe sposato a breve ed era appunto finalista di punta del premio. In finale c’era anche Andrea Maietti, grande scrittore di calcio, detentore dei segreti più intimi di Brera e già vincitore del premio. Sul palco era seduto vicino a me. Poco prima che iniziasse la serata era stato molto generoso con me e il mio libro. Mi aveva poi raccontato la fine dello scrutinio del 1997: l’altro finalista Darwin Pastorin aveva tenuto il conteggio dei voti e a un certo punto, con grande signorilità, gli aveva sussurrato: “Hai vinto tu, sono contento per te”. Verso la fine dello spoglio di quella sera estiva del 2020 Andrea mi ha preso la mano e senza neppure accorgersene ha pronunciato le stesse identiche parole di Darwin. L’ho guardato negli occhi e in quel momento entrambi abbiamo realizzato di aver ripetuto quella scena. È stato un momento davvero toccante, quasi il segno di un passaggio di testimone. In quello stesso istante, tra il pubblico, ho visto Giovanni Francesio, il direttore della narrativa di Mondadori, alzarsi di scatto dalla sedia. Aveva preso nota di tutti i voti dello spoglio e dunque anche lui aveva capito che ormai la matematica non lasciava più scampo a dubbi: ha alzato le braccia al cielo per tre volte e si è messo a correre lungo tutta la fila come un ultrà. È stato fantastico. Ne è valsa la pena solo per questo”.

 Che ricordi ha invece della partita?

“I ricordi sono tutti uguali e tutti diversi. La cosa più bella del calcio, però, non è il calcio. Ma quello che sta intorno ad esso. E una partita ci ricorda sempre con chi eravamo. Io quel pomeriggio mi trovavo con la mia famiglia. Avevo l’età perfetta per spalancare le porte al mito. Il ricordo più nitido che ho è una finta sbagliata: Júnior allarga le gambe ma la palla poi sfila di lato. Un eccesso di audacia che ancora oggi resta per me l’emblema di quel Brasile. Un vaso di cristallo al quale basta un nulla per scheggiarsi. O peggio sgretolarsi”.

Paolo Rossi è il protagonista del suo romanzo.

“Non è il solo. “La partita” è una storia corale e non esclusivamente calcistica. Ma Pablito rappresenta comunque il suo epicentro favolistico. Forse la sua è la più bella storia del calcio”.

Quali sono stati gli idoli che hanno caratterizzato la sua passione sportiva?

“Preferisco ricordare le imprese. Ne cito solo alcune. Cova che conquista per tre volte l’oro nei 10.000 metri, la Nigeria che batte Brasile e Argentina, entrambe all’ultimo minuto, e vince le Olimpiadi del 1996; Baggio che trascina gli azzurri nel mondiale del 1994; le rimonte delle semifinali di Champions del 2019 o i trentotto passi olimpici di Tortu nella 4X100 di Tokyo. Ma reputo struggenti anche quelle non riuscite, come il Calais che sfiora la coppa di Francia nel 2000 o Cané che si trova a un passo dal battere Lendl a Wimbledon nel 1987”.

Quali sono stati i suoi maestri?

“Non parlerei di maestri ma di riferimenti. Se devo fare dei nomi giovanili dico Ernest Hemingway, Paolo Conte, Krzysztof Kieślowski, Igor Stravinsky, Jackson Pollock, Alain Resnais, Ludwig Wittgenstein e Charlie Parker”.

E’ tifoso di calcio?

“Il calcio per me ha perso parte della sua bellezza. Seguo la nazionale e rimango per coerenza laziale, la squadra più letteraria che esista. Non è un caso che biancocelesti  – non biancazzurri, i colori sono quelli della bandiera greca – siano Emanuele Trevi, Alessandro Piperno, Edoardo Albinati, Giorgio Montefoschi, tra l’altro tutti inversamente proporzionali alle sorti della loro squadra essendo quattro premi Strega. Ma ci sono anche Carlo D’Amicis, Marco Lodoli, Marino Sinibaldi, Franco Cordelli, Massimiliano Governi, Aurelio Picca e Filippo Tuena”.

 Come vede il giornalismo sportivo attuale?

“Oggi il giornalismo sportivo è ovunque e dunque da nessuna parte. Trovo che la Rai resti sempre impareggiabile per stile, garbo, solidità, intelligenza e preparazione. Per la carta stampata o la saggistica sentimentale rimango legato alla vecchia guardia: Mario Sconcerti, Darwin Pastorin, Italo Cucci, Massimo Raffaeli. I “calciomercatisti” sono una sciagura. Ma non è colpa loro: è il calciomercato che è una sciagura. Ha reso i quotidiani sportivi “serieAcentrici”. L’Italia può pure vincere il medagliere europeo del nuoto o trionfare nell’atletica ma il titolo cubitale resta sul nulla. La funzione cruciale dei giornali ha preso ormai una piega viziosa. Ricordo ancora le prime pagine dedicate alle vittorie delle Under 21 di Maldini e Vicini. Nel 1984 per il quinto oro italiano alle Olimpiadi di Los Angeles la Gazzetta dello Sport titolò: “L’urlo di Numa che bel buongiorno!”, il resto della prima pagina era sui giochi. Quel giorno iniziava il calcio d’agosto e debuttava Socrates nel campionato italiano. A questo venne dedicato solo un riquadro in basso. Oggi è impensabile. Il gossip sovrasta l’impresa. L’inutile lo straordinario. Così i cervelli dei lettori si spengono”.

Una fotografia sul calcio di oggi.

“È in una fase manieristica. Ha perso la sua spontaneità, è diventato un format. Ogni cosa si è standardizzata, è diventata prevedibile, scontata, quindi attesa. E pertanto dovuta. Dall’esultanza dei giocatori al sollevamento di una coppa ogni passo viene deciso a tavolino. Gli sponsor prima e i diritti televisivi poi hanno imposto nuove abitudini. La rivoluzione ha travolto ogni cosa: i giorni in cui si gioca, i numeri di maglia, la corporatura dei giocatori, i cori dei tifosi. Il mondo cambia ed è normale che sia così. Dante o Degas consideravano in declino la loro piccola fetta di tempo. In realtà quella che per loro appariva rovina era solo trasformazione. Su un aspetto, però, parlerei di decadenza: quello dei valori. È piuttosto allarmante, infatti, che da uno sport sia sparito proprio il suo nucleo: la sportività. Simulazioni, ostentazioni, contestazioni, sceneggiate, dispetti, palle allontanate, medaglie sfilate. Il calcio oggi è un circo. Per questo, almeno a me, fa tristezza”.

Un’analisi sul campionato appena iniziato.

“Da tempo non lo seguo più”.

L’ultima partita vista allo stadio?

“La lunghissima finale di Coppa Italia tra Lazio e Sampdoria del 2009. Finì ai rigori e si andò a oltranza. Ero in tribuna con mia moglie. Il gol definitivo lo segnò Dabo. La sua è l’ultima palla che ho visto in una rete”.

Dopo non è più tornato all’Olimpico?

“Ci sono ritornato quest’anno, il 5 luglio per il quarantennale di Italia-Brasile del 1982, con Italo Cucci e l’arbitro Abraham Klein. Era completamente vuoto e non c’era nessuna partita: bastavano loro”.

Dopo “La partita” ha pubblicato “Danteide” con Bompiani, libro pluripremiato (l’ultimo riconoscimento è il Golden Books Awards) che a Roma ha anche messo in scena a Massenzio. Cosa l’ ha portata ad affrontare una simile prova?

“Sono partito da un’assenza, un vuoto. Di Dante Alighieri possediamo solo un pugno di documenti e tante chiacchiere. L’esistenza del nostro più grande poeta è fatta di supposizioni. Dante però per noi è la sua opera, anzi è soprattutto la Commedia. E questa ha raccolto tutto ciò che degli altri il sommo lesse, vide o ascoltò. Dante dunque è fatto anche di vite altrui. Presenze che avendo attraversato lo spazio della sua vita, sono poi confluite nei suoi versi. Questo assunto mi ha portato a modificare approccio e punto di vista: non guardare lui ma ciò che guardò lui. Tentare di osservare il mondo con i suoi occhi. Così ho intrapreso un viaggio nel cervello del poeta che inizia dal ritrovamento fortuito delle sue ossa in una cassetta di legno”.

Quest’anno invece, ancora con Bompiani, ha fatto uscire un’opera monumentale, “L’Affaire – Tutti gli uomini del caso Dreyfus” che il più severo e autorevole critico italiano, Giovanni Pacchiano, ha reputato senza mezzi termini “Libro dell’anno” del 2022.

“È una storia corale dentro una incredibile trama gialla cadenzata da continui colpi di scena. Un caso giudiziario che genera, tra le altre cose, la fine degli impressionisti, le ninfee di Monet e il Tour de France e che travolge le vite di Proust, Zola, Rodin, Clemenceau, Degas e molti altri (compreso Oscar Wilde). L’affaire rappresenta per tutti loro una stagione irripetibile, per me la storia delle storie. Lì dentro c’è un mondo, meraviglioso e terribile”

Sempre quest’anno per il quarantennale del mondiale 1982, ancora con Mondadori, è uscito “La partita – Le immagini di Italia-Brasile” che non è un libro illustrato, come si potrebbe erroneamente ritenere, ma qualcosa di molto più complesso.

“Più che il figlio è il padre del libro del 2019. Contiene infatti una miriade di materiali di ogni tipo: biglietti, schemi, analisi, reperti con centinaia di fotografie inedite di quella partita e dei giorni che la precedettero. Ogni aspetto viene vivisezionato: le scarpe dei giocatori, le righe del campo, le azioni della partita, i giornalisti in tribuna. Ma naturalmente raccoglie anche tante storie”.

Se non avesse fatto il giornalista quale è il mestiere che le sarebbe piaciuto fare?

“Ho fatto mille mestieri e vissuto molte vite. Credo di avere esaurito le possibilità di esistenze alternative, anche ipotetiche”.

Intervista a cura di Libero Marino