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Alessio Postiglione è un giornalista professionista e Cavaliere dell’Ordine del merito della Repubblica. Già Research assistant dell’Istituto Universitario Europeo, direttore del Master in Political marketing della Rome Business School, docente in comunicazione per la LUISS, l’Università Internazionale di Roma, la Sapienza e la SIOI. Ha scritto per testate importanti come La Repubblica, Il Mattino, l’Huffington Post, L’Espresso ed stato il capo redattore de L’Identità ed il Capo ufficio stampa presso la Presidenza del Consiglio, oltre ad aver ricoperto il ruolo di portavoce del sottosegretario alla Funzione pubblica e di addetto stampa al Parlamento europeo, al Comune di Napoli e al Ministero della Cultura.
È stato inoltre relatore alle Nazioni Unite di New York, al Parlamento europeo, al Senato e alla Camera dei deputati.

In qualità di scrittore, le sue opere sono Popolo e populismo (Cairo, 2019), con il quale ha vinto il premio Milano International, Sahara, deserto di mafie e jihad (Castelvecchi, 2017), The leftist rhetoric of the right wing propaganda in L’extreme droite in Europe (Bruylant, 2016). Infine ha ottenuto la menzione speciale del Premio giornalistico e letterario Coni 2022 con l’opera Calcio e geopolitica (Edizioni Mondo Nuovo, 2021), scritto insieme a Narcís Pallarès-Domènech e Valerio Mancini.

Nelle scorse settimane è stata pubblicata una nuova edizione di questo libro, che abbiamo anche avuto modo di recensire sul nostro portale. E oggi abbiamo il piacere di intervistarlo, spaziando dagli argomenti trattati nella loro approfondita opera a quelli di più stretta attualità, sempre legati all’ambito calcistico e geopolitico.

Dopo il meritatissimo successo della prima edizione della vostra opera, “Calcio & Geopolitica”, avete deciso di uscire con una nuova edizione, aggiornata, del libro, intitolato “Calcio, Politica e Potere”. Come nascono questi due progetti e come si potrebbero riassumere le differenze sostanziali tra i due lavori?

“Calcio, politica e potere” è una versione aggiornata, soprattutto su tre fronti. L’analisi economica e l’impatto del COVID, anche a livello di trasformazioni sistemiche, non ultimo il ruolo delle cripto valute. Poi, c’è un focus ulteriore sul Qatar, il calcio del Golfo e l’Africa, che reputiamo inquadrati geopolitici in ascesa. Infine, il calcio femminile, che sarà sempre più determinante, anche sul fronte geoeconomico.

calcio politica

Il calcio, oltre ad essere un fenomeno culturale di massa, è diventato, con il trascorrere degli anni, una sorta di soggetto geopolitico vero e proprio, autonomo e molto influente. Quanto riesce ad incidere nello scacchiere internazionale ed in quali contesti la sua influenza è certamente più marcata?

Il calcio è fondamentale perché è lo spettacolo più visto del pianeta. Non solo in Europa e Sud America, le due “patrie” storiche, ma anche in Asia, Africa, Medio Oriente.

Le due principali potenze globali, Usa e Cina, si sfidano anche in questo campo. Americani e cinesi sono quelli che hanno organizzato ad oggi più mondiali di calcio femminili, e gli USA sono la nazione più premiata, non il Brasile.

Tutti i luoghi di tensione geopolitica del globo hanno una rappresentazione calcistica, una squadra di calcio per raccontare una identità, per esprimere un progetto indipendentista: dal Donbass al Nagorno Karabakh, dal Kashmir al Mar Cinese Meridionale.

La via della seta ha una proiezione calcistica. C’è una Coppa asiatica nell’Isola di Hainan. I conflitti nell’Artico e nell’Antartico hanno una proiezione calcistica. Come le nazionali di Magallanes y la Antártica Chilena e le Falklands, al Sud, o le Isole Svalbard e FarOer, a Nord.

Cosa sono le nazionali delle Isole Chagos, di Guam o di Portorico se non territori americani che servono a presidiare militarmente Oceano Indiano, Atlantico e Mar dei Caraibi?

La Palestina, semplice osservatore presso l’ONU, è membro a tutti gli effetti della FIFA, dove siedono anche Macao e Hong Kong, inglobate dalla Cina secondo il principio “un Paese due sistemi”; la FIFA ha concesso una nazionale perfino a Taiwan, la cui indipendenza e sovranità non è stata mai riconosciuta da Pechino. Non sono solo gli Stati o le nazioni senza Stato ad utilizzare il calcio. E’ la stessa FIFA a essere un attore autonomo, paragonabile all’ONU. Anzi, con 211 federazioni nazionali organizzate in sei confederazioni continentali, possiede più membri delle Nazioni Unite, che si ferma a 193.

Questo sport viene anche utilizzato, per l’appunto, come un espediente per la cosiddetta autodeterminazione: penso ad esempio a realtà non ancora del tutto riconosciute a livello internazionale, come il Kosovo o, a suo tempo, l’Uruguay e, più recentemente, la già citata Palestina o Hong Kong, che anche grazie al calcio sono riuscite a ritagliarsi, in un certo senso, la propria “indipendenza” e la propria riconoscibilità. In questi termini, il mondo del pallone può essere considerato uno strumento trainante in senso positivo, o rischia invece di essere controproducente, anche negli equilibri geopolitici in zone particolarmente a rischio? Ed in questo contesto, quale potrebbe essere la prossima selezione “nazionale” capace di intraprendere il medesimo percorso?

Non penso ci sia una regola aurea. Sicuramente nei casi citati la squadra di calcio è un viatico per esprimere una identità in contrapposizione agli Stati. Pensiamo anche al caso del Kurdistan, del Punjab. A volte, non è la nazionale che ha questo ruolo, ma il club. E’ il caso del Barcellona, del Tiraspol che esprime la Transnistria. Anche nel caso del Donbass era lo Shakhtar Donetsk a esprimere l’indipendentismo filorusso. Almeno fino a quando i russi non hanno recentemente distrutto la famigerata centrale di Azovstal. A quel punto il patrón dello Shakhtar, Rinat Akhmetov, storico sostenitore del Partito delle Regioni, ha riposizionato la sua squadra sul fronte filo ucraino. Al che, c’è stata una scissione nella squadra e alcuni giocatori hanno preso posizione a favore di Putin.

Teoricamente ci sarebbe anche il caso di identità che vivono nel pallone, sublimando il dato politico. Era il caso della Scozia, ad esempio. Ma negli ultimi anni abbiamo invece osservato come una nazionale di calcio scozzese non abbia fatto altro che alimentare l’indipendentismo di Edimburgo.

Palestina
fonte: Twitter

Pensando invece a realtà in netta ascesa, come il Qatar, è innegabile che il calcio abbia avuto un ruolo fondamentale nella crescita esponenziale e nell’influenza internazionale di questo stato. I paesi più ricchi del Medio Oriente, inoltre, sono entrati prepotentemente nel mondo del pallone, con investimenti senza precedenti, comprando società calcistiche, siglando partnership e, ora, ricoprendo d’oro i campioni di questo sport al fine di farli giocare nei propri campionati. Tra l’altro, facendo alcuni passi indietro con la storia, non è la prima volta che uno o più soggetti internazionali, tentino di alzare il livello di appetibilità dei propri tornei spendendo quantità ingenti di denaro per portare, all’interno dei propri confini, i migliori calciatori in circolazione (penso ad esempio agli Stati Uniti, sull’onda dei mondiali del 1994, o più recentemente alla Cina), ma non sempre il risultato ottenuto è stato dei migliori. Sarà così anche per i paesi arabi, o c’è una progettualità ed una prospettiva diversa in questo caso?

 A me sembra che l’operazione Qatar abbia funzionato. Un Paese grande come l’Emilia Romagna con soli 3 milioni di abitanti, di cui il 90% stranieri, si è imposto sulla scena internazionale. La “fama” raggiunta calcisticamente dallo Stato degli Al Thani ha suggellato il nuovo standing internazionale sancito dagli Accordi Doha, con il quale gli americani hanno lasciato a questo piccolo ma influente Paese l’incombenza di gestire l’Afghanistan con il ritorno dei Taliban. Per non parlare del ruolo energetico del Qatar, che siede sui più grandi giacimenti di gas del pianeta. Non dobbiamo dimenticare che con il calcio, il Qatar ha investito prima in Spagna e poi in Francia. Gli europei avevano bisogno di quei soldi e Doha di investire all’estero. Investimenti mai neutri, se pensiamo alle infamanti accuse rivolte al Qatar anche dai tifosi del Barcellona di finanziare le moschee salafite dalle quali partivano gli attentati che hanno scosso l’Europa. Se posso aggiungere un po’ di pepe all’intervista, è assurdo che il Qatar sia finito sui giornali per i diritti dei lavoratori e LGBTQ, senza voler togliere nulla a queste istanze, e non si parli proprio dell’accusa di finanziare l’Islam politico, con le sue stragi e il progetto di destabilizzazione delle democrazie europee.

Ora segue le orme del Qatar l’Arabia Saudita. Con Cristiano Ronaldo, stanno cercando di attirare l’attenzione anche sul loro campionato – oltre ad aver rilevato Newcastle Utd e Sheffield Utd -: l’obiettivo è organizzare i Mondiali del 2030. Ovviamente, la strategia punta a promuovere sempre di più il Paese e il suo ambizioso progetto Vision 2030. Un progetto, anche questa volta, geopolitico.

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Tornando in Europa, l’argomento della Superlega è ampiamente trattato nel vostro libro. Il progetto, attualmente portato avanti da Barcellona, Real Madrid e (con tante riserve in questo momento) Juventus, era semplicemente una sorta di “salvagente” economico per le evidenti difficoltà derivate anche dalla recente pandemia da Covid-19 o si può considerare a tutti gli effetti una battaglia rivolta allo strapotere delle istituzioni calcistiche nostrane (UEFA e FIFA su tutte)?

Concordo. Al netto dei giudizi discordanti sulla Superlega, c’è un tema che riguarda il protagonismo dei grandi club contro lo strapotere UEFA e FIFA, accusate di spendere male i soldi. I club europei sono molto più poveri delle squadre di football americano, dunque queste organizzazioni vengono accusate di non riuscire a esaltare il potenziale dei grandi club europei. Fra l’altro, FIFA e UEFA si trovano in Svizzera: in Europa geograficamente, ma non politicamente. Nel nostro libro, ipotizziamo che una Superlega UE potrebbe essere un modo per rafforzare innanzitutto le grandi squadre di Italia, Francia, Spagna e Germania, anche contro la Premier inglese, che è a tutti gli effetti un competitor geopolitico, considerando che il Regno Unito ha fatto la Brexit.

Ovviamente, sono legittime le critiche sul chi debba starci in questa Superlega, ma è quello il modello verso cui si punta. Dai campionati americani al circus della Formula 1, si tratta di campionati spettacolari e itineranti, completamente deterritorializzati, perché i grandi club sono brand che hanno più tifosi in Cina e nel Mondo di quanti ne abbiano nella città d’origine.

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All’ordine del giorno, nello scenario geopolitico dei nostri giorni, c’è poi ovviamente il conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Prima dell’inizio delle ostilità (penso al Chelsea di Abramovich o a Gazprom, partner ufficiale della UEFA Champions League), la Russia giocava un ruolo fondamentale nel calcio continentale (e non solo). Cosa è cambiato ora e quanto questi cambiamenti potrebbero influenzare gli scenari futuri, sia a livello politico e sia a livello sportivo, per la Russia, per l’Ucraina e per l’Europa in generale?

Io direi che la strategia russa di creare nazionali o squadre a sostegno delle enclavi russofone nel Caucaso o nell’Europa orientale ha funzionato, invece. Tutte quelle nazionali sono aree di guerra o di conflitto congelato: Donbass, Abcasia, Sud Ossezia, Transnistria.

Caso paradigmatico è quello del FC Sheriff Tiraspol, la squadra della regione russofona e filoseparatista della Moldavia, la Transnistria, nota per aver sconfitto al Santiago Bernabeu il Real Madrid in una partita di Champions League del 2021. Il presidente dello Sheriff è un altro oligarca russo, Viktor Gushan, ex spia del Kgb e combattente, noto con il nome di “Sheriff”, nella guerra degli anni ‘90 che in Transnistria vide contrapposte le forze centrali contro quelle separatiste, portando alla costituzione della Repubblica di Pridnestrovian, cioè all’occupazione russa. Non a caso, questa repubblica non è stata riconosciuta da nessuno, se non dalle altre exclavi russe disseminate nel Caucaso, attraverso le quali Mosca persegue la sua strategia di controllo sulla “rimland”, concetto geopolitico fondamentale. Fra queste enclavi russe, ci sono l’Abcasia e il Sud Ossezia, entrambe in Georgia, regioni separatiste protagoniste del conflitto russo georgiano del 2008. Proprio come nel caso del Donbass e della Transnistria, il separatismo russo si esprime anche attraverso il calcio. L’Abcasia ha una sua prima divisione e una squadra nazionale, non riconosciuta dalla Uefa, ma dalla Conifa, la Confederazione delle Associazioni del football indipendente, organismo internazionale che fa da anticamera alla FIFA. Anzi, l’Abcasia è addirittura campione della World Cup Conifa del 2016. E anche il Sud Ossezia ha la sua nazionale Conifa.

Sheriff Tiraspol
Sheriff Tiraspol (Foto Instagram)

Concluderei questa intervista, se non le dispiace, con un doveroso passaggio sull’Italia, che a livello sportivo non sta vivendo certamente uno dei suoi momenti migliori (a parte la recente vittoria agli Europei degli azzurri di Mancini), ma che in passato era un considerata una sorta di fulcro centrale per il mondo del calcio. Quanto influiva, in quegli anni, sul piano geopolitico, la forza calcistica nostrana e cosa è evidentemente cambiato (anche e soprattutto a livello politico) tanto da rendere quello italiano una sorta di campionato “normale”, non al passo, certamente, con la Premier League ad esempio, che invece ha avuto un’ascesa incredibile negli ultimi anni?

Anche qua la geoeconomia spiega successi e sconfitte. L’ascesa della Premier è legata alla natura del capitalismo finanziario angloamericano. La Bundesliga rivela la natura fordista e corporativistica di quella economia. Gli inglesi vanno forte con la speculazione finanziaria e i fondi d’investimento, nel Bayern ci sono ancora grandi aziende che costruiscono cose, non esclusivamente la finanza, come Audi, Adidas. Corporativismo significa che anche lo Stato c’è. Siede nel consiglio della squadra anche Edmund Stoiber, Minister Präsident della Baviera. L’Italia andava forte all’epoca delle grandi famiglie del capitalismo italiano: i Berlusconi, gli Agnelli, Tanzi. L’Italia è rimasta indietro, oggi si sta aprendo. Non dimentichiamo le finali con le italiane di quest’anno. Ci sono margini per riprendere a crescere: Milan, Inter e Juventus sono grandi brand storici. Ambiti dagli investitori stranieri. La Roma si porta dietro l’immaginario della “grande bellezza”, potrebbe ottenere uno standing maggiore. Non a caso è stata puntata dagli americani che volevano fare combo con il cinema. Due parole sulla mia squadra del cuore, infine. Anche il Napoli, campione d’Italia, ha alcuni elementi dalla sua. Meno tifato in patria della triade del Nord, grazie ai meridionali della diaspora, è la squadra italiana più seguita a New York e Buenos Aires: l’icona Diego è poi un incredibile valore aggiunto. Il Napoli ha margini, dunque, per internazionalizzarsi. Per rafforzare il suo standing globale. Ma dovrebbe perseguire una retorica completamente diversa da quella che hanno proposto, invece, i tifosi partenopei che hanno esposto lo striscione “Campioni in Italia”, per affermare la loro identità borbonica e localistica. Il Napoli può continuare a vincere se si globalizza, non se porta avanti la retorica identitaria di una città bellissima e orgogliosa, ma periferica dal punto di vista geoeconomico.

Di Daniele Caroleo

Giornalista pubblicista. Direttore Responsabile de "Il Calcio Quotidiano"