federico buffa

Giovanni Arpino lo avrebbe definito bracconiere di storie e personaggi. Oggi è il narratore di sport più raffinato e versatile, capace di spaziare con sorprendente disinvoltura dal basket (il suo amore di sempre, che gli schiuse le porte della sua luminosissima carriera) al calcio, passando per tennis, pugilato, rugby e tanto altro. Federico Buffa, classe ’59, emoziona sempre, qualsiasi disciplina affronti. Per anni è stato in bilico tra ragione (l’avvocatura, lui laureato in Legge) e sentimento (il raccontare lo sport nelle sue mille sfaccettature): alla fine ha prevalso quest’ultimo. Mestiere che svolge con una straordinaria naturalezza, figlia di una cultura enciclopedica che trascende l’universo sportivo. E’ stato e per fortuna continua a essere tante cose in uno: giornalista, telecronista, scrittore, perfino doppiatore. E’ un bulimico dello sport, di cui si ciba e per cui vive. Un gigante dei giorni nostri, un aedo magnifico, e per dirla col noto critico Aldo Grasso, “uno capace di fare vera cultura, cioè di stabilire collegamenti, creare connessioni, aprire digressioni con uno stile avvolgente ed evocativo”. Un modo di raccontare storie, il suo, originalissimo e unico, con quell’eloquio elegante e composto in grado di destare la curiosità anche dello spettatore più distaccato e profano. Lo intervisto alla vigilia del suo primo tour teatrale che parte dalla Sardegna, da poco diventata orfana di uno dei suoi miti, quel Gigi Riva che andava a spiare, lui milanese, nella non lontana Leggiuno, paese natale di Rombo di Tuono. Un nuovo spettacolo itinerante dedicato a sua maestà Micheal Jordan che Buffa ha avuto il privilegio di commentare più volte all’alba della sua incredibile carriera, insieme al suo compagno di sempre, Flavio Tranquillo. Perchè Buffa non si ferma mai, non conosce pause, è sempre pronto a stupire: un vero e proprio ambasciatore italiano di sport in giro per il mondo.

Qual è stato il momento di svolta della sua carriera?

“Non sapevo che fare quando, all’inizio degli anni Novanta, il mio amico direttore di Telepiù, Andrea Bassani, grande appassionato di basket come me, decise di acquistare i diritti delle partite del basket collegiale americano e mi propose di commentarle insieme a Claudio Arrigoni. Io non esitai nemmeno un istante, piombai a Cologno Monzese e da lì iniziai a fare quello che sarebbe poi diventato il mio mestiere”.

Chi è stato il suo mentore?

“Ce ne sono tanti. In primo luogo Aldo Giordani, la voce del basket italiano per molto tempo insieme ai suoi redattori più importanti grazie ai quali sono diventato giornalista. Nell’era più moderna penso ad Andrea Bassani e al direttore Federico Ferri, oltre al mio partner di telecronaca Flavio Tranquillo”.

Quanto è cambiato il modo di raccontare lo sport dall’epoca magica dei Brera, Arpino e Viola?

“Quello era un mondo che veniva da una base letteraria solida e aveva i tempi dilatati della parola, era tutto meno parossistico, tutto meno veloce e ossessivo, quindi si aveva maggiore tempo a disposizione e la carta stampata contava più della tv. La velocità con cui il mondo si è trasformato ha costretto fatalmente il linguaggio dello sport ad adeguarsi a questa variazione di ritmo. Una volta che il ritmo cambia, cambia tutto, anche il modo di tenere la parola insieme all’azione. Cambia anche il modo di utilizzare parole che prima non venivano mai usate, magari mutuate dal mondo straniero: il mondo è cambiato e lo sport non ha certo fatto eccezione”.

Lei ha raccontato tanti eventi sportivi: c’è una storia cui è particolarmente legato?

“Nell’ambito calcistico, mi ha sempre affascinato il grande Torino, più in generale la vicenda umana e sportiva di Muhammad Ali”.

Lei non ha fatto mai mistero dei suoi tre miti sportivi: Jordan, Maradona e, appunto, Ali: chi ha lasciato di più il segno?

“Tutti e tre nella stessa misura, parliamo di tre straordinarie icone del mondo dello sport. Jordan, cui sto dedicando in questi giorni uno spettacolo, è ancora popolarissimo nonostante si sia ritirato oltre venti anni fa. Diego è assolutamente vivo, non è morto. Ali è il primo sportivo afro americano che non accetta la logica del mondo americano, diciamo così, classista. E’ il primo sportivo che pensa che i neri americani abbiano tutto il diritto di esprimersi non soltanto col gesto atletico ma anche con la parola. Un uomo senza dubbio rivoluzionario per la sua epoca”.

L’atleta italiano più grande di sempre?

“Non è facile rispondere. Per simpatia e per le difficoltà che ha dovuto affrontare e superare dico Pietro Mennea”.

Il calciatore nostrano più forte di sempre?

“Pur non avendolo mai visto giocare, ho la sensazione che Valentino Mazzola sia stato il più forte di tutti. Di quelli che ho visto dal vivo, Paolo Maldini e Gigi Riva”.

In che misura lo sport è debitore nei confronti della letteratura?

“Per come veniva raccontato anni fa, tantissimo. Per quanto riguarda oggi, sono subentrati tanti fattori. La letteratura sportiva l’hanno inventata i latino americani, i cui scrittori trattavano i giocatori non come sportivi ma come artisti già molti anni fa, e questo ha inciso molto. La letteratura sportiva italiana è arrivata dopo, però ora ci sono tanti scrittori italiani bravi come Marco Pastonesi, capace di raccontare in modo mirabile rugby e ciclismo”.

Quali sono i segreti per diventare un grande giornalista sportivo?

“Avere la fortuna che la tua passione diventi il tuo lavoro”.

Qual è la vera finalità dello sport?

“L’educazione. Nelle scuole italiane manca, purtroppo, la cultura dello sport, i ragazzi non vengono formati, e questo è un peccato originale capitale nella storia della società italiana moderna”.

Calcio e basket sono da sempre i suoi grandi amori: quale altra disciplina la incuriosisce?

“Nessun’altra in modo particolare, ma devo dire che andando spesso in Nuova Zelanda ho iniziato ad apprezzare la ritualità del rugby”.

Una sua istantanea sul calcio italiano attuale?

“Occorre fare un distinguo, separare cioè l’ambito tecnico da quello dirigenziale. Sotto il profilo tecnico, non è un bellissimo momento per il nostro movimento, i grandi talenti non fioriscono più. L’Italia in questo momento fa una grande fatica a livello di attaccanti e questo alla fine lo sconti. Magari poi però succede, come nel tennis, che tiriamo improvvisamente fuori tanti talenti contemporaneamente. Quanto all’aspetto dirigenziale, a mio avviso, ci sono troppe frizioni, nel senso che in un sistema che già mostra dei limiti con Lega e Federazione spesso in conflitto tra di loro, manca un progetto collettivo”.

Il campionato sta per tingersi di nerazzurro: lei, milanista, come giudica la stagione della squadra di Simone Inzaghi?

“Parlano i numeri, le cifre straordinarie dell’Inter raccontano la verità”.

C’è un cruccio nella sua straordinaria carriera?

“Speravo di andare alle Olimpiadi del 2012 a commentare il basket”.

E il suo orgoglio più grande?

“Commentare Jordan dal vivo nelle finali del 1997 e 1998”.

Intervista a cura di Libero Marino