Il 16 luglio 2021 si è consumato il doloroso divorzio tra Antognoni e la Fiorentina: per incomprensioni societarie, prospettive incompatibili, rapporti personali non idilliaci è venuta così a infrangersi una lunga storia d’amore, un legame esclusivo e duraturo. Il triste addio solleva ora un’eterna questione: come era iniziato tutto quanto?
LA FIORENTINA NEGLI ANNI ’70
Estate 1972: Ugolini, nuovo presidente della Viola da circa un anno, non intende essere una comparsa. La squadra, appena tre anni prima, ha trionfato a sorpresa in campionato, sotto la direzione tecnica di Pesaola, la regia e intelligenza di De Sisti e i goal del brasiliano Amarildo. Si era spezzato così il dominio decennale delle milanesi (tre scudetti l’Inter, due il Milan), aprendo la strada ad un altro successo epocale: quello del magico Cagliari di Gigi Riva. Negli anni ‘70 sarà la Juventus di Boniperti a gettare le fondamenta per trionfi duraturi: una generazione talentuosa e presto vincente (quella di Capello, Bettega etc), inizialmente amalgamata dall’ex colonna nerazzurra Armando Picchi (ucciso improvvisamente e tragicamente da un male incurabile ancor prima della conclusione della sua unica stagione a Torino), andrà ad alimentare la gloria della Vecchia Signora, sempre più avviata a imporsi come principale potenza dello Stivale. Il primo scudetto bianconero arriva al termine della stagione ‘71/’72, ed è solo il principio di un cammino glorioso.
Il nuovo patron viola sogna una crescita costante per la capitale dell’ex Granducato (per qualche anno anche capitale del Regno d’Italia), potendo andare a rivaleggiare con il duopolio Milano-Torino: Firenze mira a diventare la terza piazza calcistica d’Italia, dovendosela vedere principalmente con Roma e Napoli (senza dimenticare, appunto, proprio Cagliari). Sono anni delicati per il calcio in Italia: l’eliminazione alla Coppa del mondo del 1966 ad opera dei “ridolini” (così erano stati, poco provvidenzialmente soprannominati i suoi giocatori) della Corea del Nord ha imposto una chiusura della frontiere, obbligando così i club a spendere meno, adattandosi ad essere buoni artigiani. Il talento, insomma, occorre fabbricarselo da sé, andando poi a ricercarlo tra i campi delle province italiche. Certo, i risultati complessivi non tardano ad arrivare, e la scelta della Federazione rende possibile la maturazione (rapida, ma anche non troppo duratura) di eccellenti frutti: nel ‘69 il Milan di Rocco trionfa in Coppa Campioni, mentre nel ‘72 l’Inter di Invernizzi (fresca vincitrice di uno scudetto in rimonta) cede solo in finale al grande Ajax.
Nel costruire grandi club, si sa, è necessario avere buoni occhi, polso e un pizzico di furbizia. La Juventus di Boniperti non tarda a capirlo, affinandosi dietro la scrivania a Italo Allodi, un dirigente intelligente e navigato, già importante artefice della Grande Inter di Moratti ed Herrera (a proposito: il tecnico argentino era stato vicino a un clamoroso approdo a Firenze, prima dell’arrivo del poi vincente Pesaola); la Fiorentina, invece, può sempre contare sulle capacità sopraffine, nel riconoscere le autentiche promesse, di Pandolfini. L’ex gloria di Roma, Viola e della Nazionale (ha preso parte anche alla sciagurata spedizione in Svizzera del 1954: ne abbiamo parlato qui) è il principale responsabile del settore giovanile, e non è di certo impreparato alla missione. A Firenze approdano giocatori in erba, ma dalle ottime speranze: Orlandini, Caso, Guerini non sembrano destinati a ruoli marginali (anche se, a dire il vero, non ripagheranno interamente le attese). Uno su tutti, però, pare distinguersi. È giovanissimo, smilzo, ma di un creatività inesauribile; Firenze lo adorerà, il resto d’Italia lo ammirerà, talvolta criticherà, e non raramente compatirà. Bello, immenso, fragile: Antognoni trova Firenze, e non la lascerà più.
IL GIOVANE ANTOGNONI E L’ESORDIO
Giancarlo Antognoni è nato il primo aprile del 1954 a Perugia. Sulla data del suo compleanno si può ironizzare, e lui stesso (si dice) lo avrebbe fatto: il genio umbro porta con sé l’eterna rinascita della primavera, lo splendore della bellezza, ma anche il capriccio dell’incostanza e gli scherzi (talvolta quasi fatali) del destino. La sua volubilità sarà la sua forza, il marchio di fabbrica, ma anche il principale limite: Antognoni è Grande per le sue debolezze, e al di là di esse. Nel capoluogo umbro il padre gestisce un bar, che è anche sede di un Milan club: abbastanza facile immaginare quale sia il fanciullesco sogno (forse nemmeno così proibito) di Giancarlo.
Il primo importante club a mettere gli occhi su di lui è però il Torino: con i granata (all’epoca allenati da Giagnoni, il tecnico che portava il colbacco), Antognoni gioca un’amichevole, prima di essere declassato ai campi dei dilettanti. Il giovane talento, infatti, viene schierato tra le file dell’Astimacobi, in serie D, società empolese probabilmente ignara di ospitare una futura leggenda. Il modesto club è un satellite della Juventus, prima candidata, secondo la logica, ad accaparrarsi il campioncino; i bianconeri, però, si dimostrano poco attenti, forse non troppo convinti, e alla fine irrompe Pandolfini, incantato dalle prodezze del giovanotto. L’ex calciatore non perde tempo e prova a convincere il giovane e ambizioso allenatore della Fiorentina: Niels Liedholm. Pandolfini racconterà così l’episodio:
«Mister mi piacerebbe che vedesse un ragazzo che oggi gioca ad Empoli in una rappresentativa giovanile». Accettò anche senza entusiasmo. Entrò a fatica nella mia piccola 500. Niente parole durante il viaggio. Niente parole durante la partita, né a gioco finito. Neppure alla prima parte del ritorno a Firenze. Pensai che il mister fosse rimasto deluso ed io quindi un po’ pentito di avergli fatto perdere un pomeriggio […] Arrivati nell’ufficio Liedholm disse al presidente: «bisogna prendere quel ragazzo». La prima risposta di Ugolini fu: «ma abbiamo già concordato il programma per la prossima stagione». Poi una serie di telefonate ed Ugolini sbottò: «ma quel ragazzo costa troppo e non abbiamo i soldi necessari». «Presidente, strappi tutto quello che avevamo stabilito per la campagna acquisti. E prenda quel ragazzo». Nell’uscire dall’ufficio sussurrai: «Mister, sono d’accordo». Lui sorrise.
Antognoni ammalia, non può sfuggire al fiuto della competenza (quella del Barone, oltre cha a quella di Pandolfini); dopo qualche esitazione iniziale, anche Ugolini cede: per 435 milioni di lire il diciottenne vestirà di viola.
L’esordio, poi, non tarda ad arrivare: il 15 ottobre Liedholm lancia Antognoni nel match contro il Verona. Il talento non delude affatto, e i critici se ne avvedono. Il Corriere dello sport intitolerà emblematicamente: «La Fiorentina scopre un giovanissimo Rivera». Ecco i passaggi salienti dell’articolo:
È entrato Antognoni, diciottenne debuttante, a fare da uomo sui tre quarti del campo, e di lui va detto subito subito, poiché era la novità della giornata: ha convinto pienamente e nella costruzione della vittoria ha fatto da geniale architetto […], figurando tra i migliori in campo […] Il giovane perugino ha vinto disinvoltamente l’esame guadagnandosi di forza e d’abilità il posto in squadra. Esaltante addirittura il suo primo, quando ha illuminato il gioco con felice intuizione di quello che era giusto fare e di quanto invece non doveva farsi. Non ha sbagliato una palla, tutte giocandole con spiccato senso di inventio, variando gioco e passo per frastornare l’avversario: è rimasto sempre nel vivo delle azioni, che ha impostato con fine intelligenza.
Antognoni ha classe, intelligenza: le azioni sa dirigerle e inventarle. Il gioco lo crea, dimostrandosi genio. Il debutto, insomma, certifica già la grandezza del perugino. Un paragone, però, pesa e inorgoglisce: quello con il Golden Boy Rivera. Se ne parlerà ancora.
RIVERA E ANTOGNONI: UN CONFRONTO
È il 12 marzo 1972: Rivera sbotta. Il Milan è in piena corsa per lo scudetto, a soli due punti dalla Vecchia Signora capolista, che ospita in casa il Bologna; i rossoneri sono in spedizione a Cagliari, nel tempio isolano di Gigi Riva. La squadra torinese non tradisce le attesa, superando i rossoblu. Molto delicata e combattuta è la situazione in Sardegna; a pochi minuti dalla fine, però, viene fischiato un rigore per un fallo di mano (molto dubbio) di Aquiletti su una conclusione in mezza rovesciata di Rombo di Tuono. Lo straordinario centravanti va al dischetto e non perdona: il Cagliari vince due a uno, supera il Milan, che scivola così a quattro distanze dalla vetta.
A fine partita il Golden Boy è una furia: attacca la classe arbitrale, la Federazione, guadagnandosi così una squalifica fino al termine della stagione. Il principale fuoriclasse d’Italia ha alzato la voce, e la faccenda non può lasciare indifferenti. Di Rivera, infatti, si è sempre apprezzata non solo l’arte, ma anche la pacatezza e la cultura; le madri lo considerano un giovanotto ideale, gli aspiranti calciatori un modello esemplare per genialità, senza troppa sregolatezza. Rivera inventa in campo, accompagna alla rete i suoi compagni, ma sa anche realizzare. È un 10 completo, a tratti atipico (sicuramente più prolifico rispetto agli altri): non si sacrifica troppo, ma il talento abbonda. Gianni Brera, come noto, non lo amerà affatto (lo soprannominerà “Abatino”, per le maniere un po’ leggere di stare in campo), entrando così in disaccordo (e forse solo su questo, o quasi) con il Paron Rocco, primo ammiratore del fenomeno piemontese. Rivera, insomma, incanta, divide, genera rivalità (famosa è quella con il nerazzurro Mazzola ai Mondiali del 1970): lo fa, sapendo essere artista in campo e politico fuori. Il campione dalle buone maniere non può lasciare indifferenti: le pennellate e l’anarchia sul rettangolo verde sono in armonia con uno spirito argomentativo, diplomatico e anche critico. Rivera accentra: il pallone ruota intorno a lui, il Milan è la sua casa, e il Golden Boy rivendica senza alcuna esitazione il suo esserne signore (anche nel portafoglio).
Essere accostato al fenomeno rossonero è per Antognoni un onore, ma anche un onere. Il giocatore viola sa essere in campo compositore e pittore, architetto e anche incursore (sono micidiali le sue punizioni). Sa essere leggero, e questo, come si è visto, non piace proprio a tutti (Brera lo soprannominerà “Abatonecello”). Antognoni e Rivera sono entrambi numeri dieci, ma con mansioni non identiche. Lui stesso dirà in un’intervista del settembre 1978:
Io non mi sono mai ritenuto il successore di Rivera, anche perché penso di avere un gioco diverso. Lui è sempre stato un rifinitore per le punte, io gioco a tutto campo.
Di certo, va detto, l’eleganza li accomuna: Antognoni si muove in campo con la testa sempre alta (viene definito da Vladimiro Caminiti“il ragazzo che gioca guardando le stelle”): gesto di effettiva nobiltà, o per alcuni magari di arroganza. In realtà, è questo l’unico modo per riuscire a leggere tutto ciò che intorno accade, potendolo reinterpretare e inventare sempre di nuovo. Antognoni è e sarà Firenze, così come il nome di Rivera è inseparabile da Milano. Nel loro essere simboli e bandiere di epoche diverse, un qualcosa di certo li divide: Rivera vince moltissimo, Antognoni in viola raccoglie poco. Il Golden Boy è l’inventore che sa stanziarsi al potere, la bellezza che si traduce in gloria; Antognoni è il fascino dell’incompiutezza, ma anche l’icona di un popolo. Milano può offrire al suo fuoriclasse opportunità infinite; Firenze per un talento così esorbitante si rivela forse un po’ stretta, ma in fondo sufficiente alle esigenze del “Bell’Antonio” (così era stato soprannominato Antognoni per il suo fascino tenebroso).
Puoi anche vincere due scudetti e due coppe dei campioni, ma poi che cosa ti rimane? Il tuo nome sugli almanacchi. Meglio essere ricordato come uno che non ha mai tradito Firenze e la Fiorentina.
Così si pronuncerà anni dopo Antognoni: è questa in fondo la ragione dei corteggiamenti rifiutati (in particolare, quello degli Agnelli) e dei sentimenti gelosamente custoditi: essere una bandiera a Firenze è assai meno comodo (e ancora più eroico) che esserla sui Navigli.
I SUCCESSI IN VIOLA
Torniamo ora al nostro racconto. Con Liedholm la squadra propone un buon gioco, ma non ottiene risultati sensazionali: in due stagioni i Viola si classificano quinti e quarti, e il Barone è costretto a cercare fortuna (non tarderà ad arrivare) altrove. Dopo un’annata deludente sotto la guida di Gigi Radice (che presto regalerà a Torino, sponda granata, uno storico trionfo), ecco una clamorosa svolta.
Per il Paron Rocco il mestiere da allenatore a Milano non è più agevole e proficuo come un tempo: la squadra è ormai a fine ciclo e il rapporto con il presidente Butichi è turbolento. L’allenatore friulano rompe in fretta e lascia così, dopo annate di gloria, i lombardi. Le vite calcistiche di Rocco, però, sono infinite, e l’ennesima occasione si presenta in fretta: Firenze chiama, il re degli allenatori italiani risponde. Una nuova avventura ha così inizio.
Le cose, però, non vanno stupendamente bene: le rive dell’Arno sono inquiete e la gloria rossonera non viene replicata nella città di Michelangelo e Brunelleschi. Rocco, in fondo, non è a casa sua, Milano è sempre nel cuore, e la scintilla del vincente forse si sta spegnendo. Antognoni prova a trascinare un gruppo, che però non riesce a mantenere le promesse di inizio ciclo: in campionato si fatica più del dovuto, il raccolto decisamente stenta. In primavera si arriva così a una rottura prematura e dolorosa: Rocco abbandona Firenze con amarezza, il successore designato è un certo Carletto Mazzone. In una stagione nel complesso deludente e sofferta, l’occasione del riscatto non manca, e non è cosa da poco: la Viola si gioca una finale di coppa Italia, proprio contro i rossoneri di Milano.
La partita si gioca il 28 giugno 1975 all’Olimpico di Roma. Sulla panchina viola non siede ancora Mazzone che, per problematiche burocratiche, è costretto a lasciare il posto al suo quasi omonimo Mazzoni. Il Milan è allenato da Giagnoni, ed è soprattutto privo del suo fuoriclasse: Rivera è ai ferri corti con la dirigenza, e costringe i compagni a rassegnarsi alla sua assenza.
La partita è bella, combattuta; i Viola vincono per tre a due (reti di Casarsa, Guerini, Rosi per la Fiorentina; Bigon e Chiarugi per il Milan), andando a così a risollevarsi dopo mesi complicati. È il primo successo con i toscani per il Bell’Antonio: in realtà, resterà anche il più importante della sua vita a Firenze. Ecco come “Il Brivido Sportivo”, un settimanale fiorentino, celebra così la serata:
è stata una partita bella, schietta, eccitante; una partita che ha rovesciato, per la prova in maiuscolo di questi ragazzi in casacca viola, ogni pronostico […] Alla fine applausi, bandiere al vento (di colore viola), baci e abbracci. E qualche consigliere issato a spalla con tana energia. Le prossime saranno ferie migliori per tutti noi, soprattutto per i dirigenti che, senza questa affermazione di grande valore, avrebbero dovuto inventare qualcosa per inculcare nell’animo dei fiorentini i motivi spirituali di un altro anno di speranze.
Qualche mese dopo, la Fiorentina ha la possibilità di giocarsi un altro trofeo, se pur non di prestigio assoluto: si gioca la coppa Italo-Inglese tra la vincitrice della Coppa Italia e quella della Coppa d’Inghilterra. La partita d’andata a Firenze è decisa da una rete per la Viola (ora effettivamente allenata da Mazzone) di Guerini; nell’incontro di ritorno i toscani si impongono ancora con una rete di scarto, andando così a conquistare il trofeo. Certo, nulla a che vedere con la finale di Coppa Campioni persa nei lontani anni ‘50: resta questa, però, l’ultima coppa internazionale in bacheca per la Fiorentina. L’unica (Nazionale a parte) per il suo capitano Antognoni.
IL DRAMMA SFIORATO E UN GRANDE RIMPIANTO
Firenze sogna ora di poter avviare un ciclo: in realtà, si torna troppo in fretta con i piedi a terra. Nonostante un ottimo terzo posto in campionato, nemmeno Mazzone alla lunga riesce ad accompagnare i viola al salto di qualità; i talenti non esplodono, talvolta Antognoni (peraltro discontinuo e non in ottime condizioni fisiche) pare essere destinato alla solitudine del predicatore. Dopo alcune annate estremamente deludenti, la contestazione sull’Arno infiamma: gli Ugolini lasciano senza aver lasciato il segno, cedendo la poltrona dirigenziale ai Conti Pontello (Ranieri sarà il presidente). La nuova a famiglia nobiliare intende nobilitare anche Firenze: in realtà, non ci riusciranno nemmeno loro.
I progetti della nuova proprietà sono ambiziosi, ma gli esordi ancora faticosi. A circa metà della stagione ‘80-’81, la Fiorentina arranca in zona retrocessione: Carosi viene licenziato e occorre scegliere un sostituto. Dopo un tentativo a vuoto per Beppe Chiappella (l’ex gloria viola tentenna per ragioni di salute), la società opta per una più fresca bandiera: a sedere sulla panchina sarà De Sisti, l’architetto in mezzo al campo della squadra scudettata di Pesaola. L’allenatore debuttante (De Sisti ha da poco abbandonato i campi da gioco, dopo diverse stagioni alla Roma) guida Firenze a un insperato quinto posto, guadagnandosi così la conferma. Nell’estate, poi, la campagna acquisti è sontuosa: sull’Arno arrivano giocatori del calibro di Graziani, Pecci, Vierchowod, Massaro, Cuccureddu, donando al popolo viola la possibilità di sognare un’attesa vittoria.
La Fiorentina parte con qualche fatica, ma a dalla quarta giornata si mette adeguatamente in carreggiata; Antognoni sembra finalmente essere il portavoce di un gruppo non solo di prospettiva, ma anche davvero capace di vincere e in fondo già vincente (Pecci e Graziani hanno già trionfato a Torino per i granata; Cuccureddu di campionati ne ha vinti sei con la Juventus). Qualcosa però rischia di rompersi (e in modo assai drammatico) molto rapidamente
È il 22 novembre 1981: si gioca a Firenze Fiorentina-Genoa. Antognoni, come sempre, è l’anima e l’artista della squadra: gioca i primi 55 minuti in un modo straordinario, realizza anche un calcio di rigore e il pubblico si esalta. Accade però un fattaccio: su un lancio di Bertoni, Antognoni si trova da solo davanti al portiere avversario Martina. C’è uno scontro durissimo ad annunciare minuti drammatici, si teme tragici: il Bell’Antonio è a terra immobile, non respira più e il cuore ha cessato di battere. Intorno solo volti di sgomento, 25 minuti di agonia generale, un massaggio cardiaco e una disperata respirazione bocca a bocca: alla fine Antognoni riapre gli occhi, ed è un sollievo infinito. Il campione mancherà dal campo diversi mesi, ma ha per fortuna rimandato il suo incontro con gli Dei. Dirà il dottor Gatto:
mezzo minuto lungo come un’eternità, siamo stati sull’orlo della tragedia. Non capisco come lo scontro, il colpo di testa, possano aver avuto riflessi cerebrali e cardiaci così gravi.Ma l’importante è che siamo riusciti riprendergli il polso. Sono stati momenti drammatici, ripeto, drammatici.
Nelle settimane successive, la Viola non sembra risentire troppo dell’assenza del suo fuoriclasse: la squadra toscana è in vetta a braccetto con la Juventus, e sembra destinata a rimanerci a lungo. Il 21 marzo 1982 Antognoni ritorna a sorpresa in campo, ripresentandosi con un assist contro il Cesena, per poi andare a segnare una rete assai importante a Napoli qualche settimana più tardi. Il campionato è equilibratissimo, la tensione è alle stelle: Fiorentina e Juventus arrivano a pari punti, e con la prospettiva di un dispendioso spareggio, all’ultimissimo atto della stagione.
Per le due capoliste, la serie A si conclude in trasferta: i bianconeri di Trapattoni giocano a Catanzaro (già salvo), mentre la Fiorentina è attesa da un insidioso viaggio a Cagliari, con i sardi che ancora devono sudarsi la permanenza al banchetto dei grandi. Le due partite sono combattute, estremamente tirate e sostanzialmente brutte: i nervi e la fatica sembrano i più presenti sul rettangolo verde. Al quarto d’ora della ripresa, poi, pare presentarsi una svolta: su cross di Antognoni, Graziani insacca. Immediatamente dopo, però, cala il gelo sul popolo toscano: l’arbitro annulla per un (molto presunto) fallo di confusione in area. Qualche minuto più tardi, poi, la delusione si trasforma in vero e proprio dolore: Brady realizza un sacrosanto rigore per la Juventus (nel primo tempo ne era stato negato uno al Catanzaro), confermando i torinesi, per l’ennesima volta, sul trono d’Italia. La delusione è cocente e Antognoni esplode: “ci hanno rubato il titolo”. Parecchi anni dopo, poi, il campione si dimostrerà poco propenso a ritrattare:
quel campionato perduto grida vendetta. Arrivammo a un punto dalla Juve: all’ultima giornata a Cagliari ci annullarono un gol regolare di Graziani, mentre la Juve vinse a Catanzaro con un rigore, che c’era […] Forse non doveva finire con uno spareggio perché c’era il Mondiale che incombeva e in nazionale eravamo in cinque della Fiorentina e in sette-otto della Juve.
Si è conclusa così la stagione del più grande rimpianto, e una nuova occasione per Antognoni e la Viola non si presenterà negli anni successivi. La Nazionale, però, sta per trasferirsi in Spagna: forse, almeno lì, Antognoni potrà dimostrare di essere un vincente.
ANTOGNONI IN AZZURRO
Il rapporto di Antognoni con la Nazionale era stato fino a quel momento controverso. Alla Coppa del Mondo del 1979, il campione viola si era presentato in una condizione fisica non ottimale, giocando buon calcio solo frammentariamente. Gli Azzurri avevano concluso ai piedi del podio, senza che il Bell’Antonio fosse riuscito a trasformare in vero oro il prezzo della responsabilità più onerosa: quella che portano con sé solo i migliori.
Ora, in Spagna, si presenta per il campione la possibilità definitiva per dimostrare la propria forza. Antognoni deve riscattare la delusione per il tricolore sfumato, la Nazionale ha il compito di emanciparsi da annate di polemiche e scandali. L’inizio, come è noto, non è dei migliori: l’Italia pareggia contro Polonia, Perù e Camerun, si qualifica per un soffio alla fase successiva, ma rischia di essere sommersa da un mare di polemiche infinite. Il sorteggio è poi durissimo: gironcino a tre con Argentina e Brasile e in pochi giurerebbero sulla nostra sopravvivenza. Vinciamo la prima contro l’Argentina, grazie al primo fiorire di Paolo Rossi e a una fase difensiva invidiabile. È il turno del Brasile: molti (tra questi Gianni Brera) temono possa a finire a pallonate e magari pomodori in faccia. Il destino, però, ha in mente un finale di ben altra tinta: vinciamo tre a due e Paolo Rossi fiorisce questa volta definitivamente (del resto, qualche anno prima lo aveva annunciato anche Rivera: quello a venire sarebbe stato il decennio di Rossi, non quello di Antognoni!). Di goal, in realtà, ne segniamo anche un quarto, e a realizzarlo è proprio il Bell’Antonio. La sorte, però, per quanto imprevedibile, sa essere talvolta perfino noiosa nella sua ripetitività: quella rete viene annullata per un fuorigioco inesistente. La ruota, insomma, gira, ma per alcuni il pieno raccolto sembra dover essere infinitamente protratto; per gli Azzurri è una serata di Storia, per Antognoni, comunque, il sorriso è oscurato da un’ombra di ingiustizia.
Si gioca in semifinale contro la Polonia. L’Italia parte bene, Antognoni anche: imposta gioco con intelligenza e qualità, inventa l’assist per la prima segnatura di Rossi e pare voler cancellare definitivamente quella piccola macchia dell’esultanza negata. Ad essere rimossa, però, è solo l’illusione del pieno riscatto: in uno scontro di gioco Antognoni rimedia un infortunio ed è costretto a uscire dal rettangolo verde. L’Italia vince, si qualifica per la finale e poi la vincerà: tutto questo, però, senza il campione viola a figurare in campo. Per una volta, sì, il Bell’Antonio ritorna a casa da vincente. Si fa anche portavoce, però, di un nuovo insegnamento: si può essere incompiuti anche nella gloria.
L’EPILOGO E LA CARRIERA DA DIRIGENTE
Gli ultimi anni di attività di Antognoni coincidono con il tramonto dei sogni di trionfo della Viola. L’occasione per una rivincita in campionato non si presenta, gli investimenti (arriveranno anche Falcao e Socrates) non si traducono in successi. Il Bell’Antonio, poi, non riesce a liberarsi della sua fragilità infinita: subirà un altro grave infortunio (questa volta a infierire sarà Pellegrini della Samp)e e non riuscirà più a contemplare veramente le stelle. Al termine dell’annata ‘86-87 lascia, dopo aver guidato Firenze a una soffertissima salvezza: si conclude così una storia di amore e rimpianti.
Nel 1990, poi, una nuova grande opportunità: I Cecchi Gori, dopo le forti contestazioni per la cessione del Divin Codino alla Juventus, acquistano la Fiorentina. Per poter inseguire lo scudetto mancante, la nuova dirigenza intende affidarsi anche alle bandiere: Antognoni è chiamato in società, sarà un osservatore, poi diventerà dirigente. La storia del Bell’Antonio torna a tingersi di viola.
Anche i Cecchi Gori non riescono però nell’intento di riportare il tricolore a Firenze. Nel 1992-1993, la Viola sogna in grande, ma morirà in un incubo. Il tecnico è Gigi Radice, ex gloria granata; la Fiorentina è un’ottima squadra e parte alla grande, trovandosi a dicembre al secondo posto in classifica. A gennaio, poi, accade l’imponderabile: dopo una sconfitta con l’Atalanta, Radice è clamorosamente esonerato. La scelta appare folle, e si rivelerà poi effettivamente tale. Il sostituto Agroppi porterà a Firenze solo batoste subite e l’angoscia che il peggio possa attuarsi; a poche giornate dalla fine viene licenziato, e al suo posto viene convocato in emergenza proprio Antognoni insieme a Chiarugi. Due idoli della tifoseria per aggrapparsi a una sopravvivenza difficile. La missione, però, non riesce: i Viola terminano in serie positiva, ma alle porte delle ferie estive si ritrovano retrocessi in B. È una disfatta inimmaginabile.
Negli anni a venire una ricostruzione rapida e ambiziosa, che riporta Firenze al tavolo delle pretendenti al titolo. Nel ‘95-’96 arriva anche un trofeo: la Fiorentina vince la coppa Italia, sotto la guida di Claudio Ranieri. È la squadra di Rui Costa (è un grande orgoglio per Antognoni averlo scoperto!) e il nuovo divo Batistuta. In finale è battuta l’Atalanta: è un nuovo successo per la Viola e per Antognoni (questa volte da dirigente), dopo quella del 1975.
Pochi anni dopo, poi, un nuovo grande rimpianto. Nell’estate del ‘98 Vittorio Cecchi Gori (il padre è deceduto qualche anno prima) punta sullo spirito vincente e sul pragmatismo di Trapattoni per riportare Firenze in alto; in squadra, alla forza e alla classe in attacco del tridente Rui Costa, Batistuta, Edmundo, si aggiunge in difesa la solidità di Torricelli. La Fiorentina disputa un girone di andata a livelli altissimi, e la città sogna. Poi nel mese di febbraio il destino malvagio torna a bussare: Batistuta si infortuna, mentre Edmundo non può in alcun modo rinunciare al carnevale di Rio. La Viola terminerà terza: ancora una volta, per l’ennesima volta, decisamente incompiuta.
Antognoni lascia la Fiorentina nel gennaio 2001, dopo l’esonero non condiviso di Terim; negli anni successivi la squadra toscana vincera ancora una coppa Italia (sotto la guida di Mancini), ma vivrà anche gli anni bui della retrocessione e del fallimento. Il Bell’Antonio tornerà in dirigenza, ancora una volta, nel 2017, nell’agurio di poter contribuire a una nuova scalata ambiziosa. Il legame, però, si è sciolto ancora una volta. Belli, sfortunati e incompiuti: Antognoni e la Fiorentina. Antognoni è la Fiorentina.