Al triplice fischio i tifosi del Napoli hanno tirato un sospiro di sollievo. L’ha scampata bella la squadra di Gattuso, lenta e involuta fino a diventare fastidiosa per l’intrattabile tifoso in poltrona. Incapace di trovare trame di gioco passabili, il Napoli ha raggiunto il suo scopo: rialzarsi per non cadere nel gruppo “F” di Europa League. Ma uscire vittoriosi da Rijeka non è una cosa banale, la storia dice altro.
È una competizione strana l’Europa League. Al termine dei rispettivi campionati nazionali, dirigenti e giocatori delle squadre che accedono ai gironi, si lanciano con entusiasmo in interviste gonfie di orgoglio e autoreferenza per il traguardo raggiunto. Davanti ai microfoni si raggiungono immaginifiche iperbole, come se il torneo fosse già vinto.
Poi, appena si ricomincia a fare sul serio ed il sabato giochi a Milano, il giovedì sei di scena nel siderale Azerbaigian a vedertela con il Quarabag, domenica vai in trasferta a Roma, cominciano dolori e lamenti. “E’ una coppa che non vale nulla”, “è un impegno che i giocatori non recepiscono”, “oggi ne cambiamo otto” e chi più ne ha più ne metta. Triste destino di un torneo e uno smacco per chi ha alzato la vecchia Coppa Uefa, che proponeva incontri diretti che valevano, senza eufemismi, una finale di Champions. Il divario poi si amplifica soprattutto se guardiamo l’odierno tazebao della massima competizione europea. Oggi il nuovo che avanza si chiama Krasnodar, Istanbul Basaksehir, Salisburgo, Midtjylland (sic!). Francamente ci sembra poca cosa quando, scorrendo il tabellone del 1988 (preso per puro esempio), scopriamo che i lontanissimi 32esimi di finale proponevano Sporting Lisbona-Ajax. Negli ancora oscuri sedicesimi Juve-Athl. Bilbao, fino agli ancora non eccelsi ottavi che regalavano nientemeno che Bayern Monaco-Inter (!!!). Dai quarti in avanti meglio sorvolare. Oggi queste partite sarebbero teletrasmesse senza tema in tutto il mondo.
Ma il livello attuale va preso per quello che è. Di conseguenza pure la vittoria di Rijeka ha il suo sapore (insipido) per il Napoli e le sue bandiere.
Fiume (Rijeka appunto) non è una storia semplice per noi italiani. È una storia complessa, che sa di antichi ardori, di sofferenza, di balance of power nel nome della politica internazionale.
Fiume era contesa tra il Regno d’Italia ed il Regno dei Croati Serbi e Sloveni. L’occupazione da parte di reparti ribelli del Regio Esercito Italiano, la cui spedizione fu affidata a Gabriele d’Annunzio, aveva lo scopo di annettere la città all’Italia. Il tutto iniziò nel settembre del 1919. Non bastò il trattato di Rapallo (al quale si opposero i ribelli e lo stesso d’Annunzio che rifiutò il trattato fin dal primo momento) nel consensuale tentativo di mediare i rispettivi principi di nazionalità. Il governo italiano sgombrò con forza la città nel dicembre 1920 creando di fatto lo “stato libero di Fiume”. Lo stato libero rimarrà sotto il controllo dei militari italiani fino alla completa annessione di Fiume (1924), con conseguente politica di italianizzazione.
Ma, come dicevamo, il destino di Fiume è complesso, amaro e senza pace allo stesso tempo. All’epilogo della seconda guerra mondiale, le truppe jugoslave avanzarono fino a Trieste (maggio 1945) con Fiume che fu presa il 3 maggio. La cessione della città alla Jugoslavia (per la quale tante lacrime si erano versate, d’Annunzio battezzò “Natale di sangue” gli scontri del 24 dicembre 1920) fu formalizzata solo nel 1947 con il Trattato di Parigi.
Immaginiamo un brivido per gli italiani ed i croati incollati davanti alla televisione. Se la storia fosse andata diversamente, Rijeka-Napoli poteva non essere disputata. Il protocollo Uefa non prevede due squadre della stessa nazionalità nello stesso girone. Lo stesso brivido si è avuto dando uno sguardo ai giocatori croati che potevano vestire una maglia diversa dall’attuale biancorossa a scacchi. Modric, Mandzukic, Brozovic, Perisic, Rakitic, Kovacic. Sono solo un piccolo esempio di ciò che poteva essere e non è stato. Non è certo un caso se i calciatori della Croazia sono soprannominati Vatreni (“i focosi”).
Ma in Rijeka-Napoli del fuoco nemmeno l’ombra, al massimo un qualcosa di tiepido che per nulla (soprattutto nel primo tempo) ha avuto somiglianza con il calcio. Buon per il Napoli che dei predetti fenomeni nemmeno l’ombra. Questa volta i croati avevano il nome di Escoval, Loncar, Braut, Menalo (qui Gattuso farebbe la differenza) fino ad arrivare al tecnico Rozman (e abbiamo detto tutto).
Con il calcio abbiamo scherzato, molto meno con il passato.
Non si può dare un calcio alla storia, anche se quella odierna si chiama Rijeka-Napoli.