maglia nerafonte: account Facebook ufficiale Sv Tasmania Berlin

Nello sport professionistico la parola sconfitta non è contemplata. E questa già sarebbe una sciocchezza in quanto, nel cortile dell’oratorio o a biliardino, non abbiamo mai visto nessuno disposto a perdere. Allora diciamo che la vittoria è un’aspirazione, che muove i suoi parametri rispetto alla competizione cui si partecipa. Essere soli o far parte di una squadra non è la stessa cosa. Nel primo caso si diventa croce e delizia di se stessi, viceversa la propria prestazione deve, per forza di cose, essere supportata dai compagni. Tanto per intenderci, il “braccino corto” del tennista è soltanto la paura di se stessi, mentre il rigore sbagliato allo scadere o il paperone del portiere al 92° viene contestualizzato allo spogliatoio, anche se giornalisti e telecamere andranno poi in cerca dei tapini. Accade quindi che la sconfitta, che preferiamo definire non vittoria, assume un diverso sapore rispetto allo sport praticato. In genere in atletica, nelle manifestazioni olimpiche, non piace ricevere una medaglia che non esiste fisicamente, se non nella narrazione sportiva. È la cosiddetta medaglia di legno, quella che si assegna, idealmente, agli atleti che non hanno avuto la capacità, la fortuna, la forza, per salire uno dei tre scalini che formano il podio. E qui si aprirebbe una discussione infinita. Eh si, perché anche il medagliato di bronzo avrà i suoi rimpianti per quel millesimo di secondo o il mezzo punto che lo ha separato dai metalli più nobili. E così via. Ma spulciando nell’aneddotica sportiva si colgono gli aspetti più maniacali di questo ragionamento, ovvero emergere a tutti i costi. O, più correttamente, la voglia di “sommergere” a qualunque costo.

Prendiamo ad esempio la maglia nera nel ciclismo. Il colore non dice granché. L’occhio dello sportivo, abituato alla policromia televisiva di quelle maglie, dove sono presenti tutte le sfumature, non fa molto caso al nero che, nel gruppo compatto, diventa un monocromo qualsiasi. Eppure questa maglia era ambitissima dai partecipanti al Giro d’Italia anzi, per quei ciclisti che non avevano nessuna possibilità di mettersi in evidenza, rappresentava l’unica occasione. Nelle competizioni a tappe basta vincerne soltanto una in carriera per chiacchierare in piazza tutta la vita. Allora come la mettiamo con quei corridori non dotati di spunto in volata, inadatti alle salite (e addio ai premi della montagna), sfiancati dopo neanche 150 chilometri? La maglia nera veniva in aiuto anche con cospicue somme di denaro. La borsa per l’ultimo degli ultimi riuscì perfino a superare quella destinata al sesto della classifica finale. Ora la definizione di “premio”, per chi arriva ultimo, appare una nota stonata. Come il permesso definito premio che si concede a un tizio che si è buscato venticinque anni. Ci ricorda l’ossimoro della canzone “Ghiaccio Bollente” che Tony Dallara, appartenente alla categoria canora degli “urlatori”, cantava nel 1959.

La maglia nera ha una storia intrigante. Ci riporta a Giuseppe Ticozzelli, noto calciatore negli anni venti di Alessandria, Casale e SPAL (al suo attivo la rete più lunga della storia, 75 metri direttamente da calcio di rinvio). Il difensore pavese partecipò al Giro d’Italia del 1926 come indipendente, correndo per sole quattro tappe, costretto al ritiro dopo essere stato investito da una moto. Il ciclista-calciatore divenne celebre per aver accumulato, in una delle frazioni, un’ora di vantaggio sul resto della truppa. Correndo autonomamente, non poteva contare sull’aiuto di alcun compagno per i classici rifornimenti. All’ora di pranzo quindi, si fermò a mangiare in un ristorante, attendendo poi il gruppo per riprendere la corsa.

Fu la maglia del Casale (nera con una stella bianca), indossata al Giro da Ticozzelli, ad ispirare il colore per il premio che fu istituito nel 1946. Si narrano storie assurde di ciclisti che si nascondevano nei bar, nei fienili, che bucavano le loro stesse gomme o correvano gravemente infortunati, pur di arrivare ultimi. Così come è assurda l’irrefrenabile gioia dei tifosi del Tasmania Berlino (quinta serie tedesca) per la vittoria dello Schalke04 (un evocativo 4-0 all’Hoffenheim).

Motivo? La voglia di mantenere un record, anche se negativo.

Il Tasmania infatti, catapultato in Bundesliga nel campionato 1965/1966 causa il declassamento dell’Hertha (all’epoca il vincolo federale obbligava la presenza di almeno una squadra di Berlino Ovest), divenne celebre per tutta una serie di pessimi primati, molti dei quali ancora renitenti alla leva. Minor punti conquistati (8); minor numero di vittorie (2); maggior numero di sconfitte consecutive (10); peggior differenza reti (-93 con 15 segnate e 108 subite!); 31 partite consecutive senza vittoria (la formazione di Gelsenkirchen si è fermata a 30); minor numero di spettatori in un incontro: 827 (per capire meglio il fenomeno, nelle prime due gare interne si contarono 81mila e 70mila presenze). Gli stessi tifosi del Tasmania avevano già fatto sentire il non disinteressato supporto il 2 gennaio, con cartelli (salvate questo record!) in tutta Berlino, masticando l’ennesima delusione per la solita sconfitta dello Schalke (3-0 ad opera dei padroni di casa dell’Hertha).

Poi il 9 gennaio finalmente la luce, a rischiarare l’agognata “maglia nera”, fiero blasone dei Tasmanian Boys.