Stadi vuoti, divieto di assembramento, proibito socializzare. Non è certo un buon viatico per discutere di calcio. È inevitabile la perdita di entusiasmo e di quella antica animosità. Nonostante ciò, con alcuni amici abbiamo iniziato un discorso sul significato dell’urlo nello sport. Del grido, emissione vocale liberatoria che scaccia momentaneamente ansie e paure. Abbiamo riso, col sospetto che il discorso potesse inerpicarsi su una strada lastricata di nemesi e catarsi. L’urlo, inteso come castigo nei confronti degli avversari e purificazione dell’animo al verificarsi dell’evento. L’incipit, assurdamente intellettuale, ci ha riportato indietro ai mondiali giocati nel Belpaese. Italia ’90 appunto. A quel tempo la nostra penisola viveva già da tempo un’overdose calcistica. Prima i progetti, a seguire la costruzione degli impianti e delle infrastrutture. Poi, ovviamente, le partite. Un periodo di calcio orgiastico. E fu a quel punto che, gruppi di persone, autodefinitesi intellettuali ebbero la brillante idea di rifugiarsi in un eremo.
Un posto dove fosse possibile non seguire, di proposito e voluntate, le partite.
Un luogo sicuro dove non si parlasse e dove non arrivassero quelle stra-noiose notizie di calcio.
Capalbio, piccolo comune costiero in provincia di Grosseto, all’epoca sicuramente sconosciuto ai più.
La località divenne improvvisamente l’enclave del rifiuto e della controrivoluzione, ergendosi (per gli snobisti radical-chic) a località football-free. Dissertando di questo e quello abbiamo evocato uno dei più bei film di Nino Manfredi. “Pane e Cioccolata”, una pellicola diretta da Franco Brusati uscita nel 1974, anno dei Mondiali disputati in Germania. Giovanni Garofoli (Manfredi) dopo disavventure varie risiede da clandestino in Svizzera. Una vita fatta di stenti, lontano da famiglia e amici. Un giorno, nell’estremo e patetico tentativo di integrarsi con il popolo elvetico, decide di schiarirsi i capelli trasformandoli in una improbabile massa biondo-platino. Poi l’entrata in un bar, dove una folla di avventori assiste alla diretta di una partita. Gioca la Nazionale italiana. Giovanni continua nella sua nuova e goffa pantomima svizzera. Ma un gol degli azzurri cambia tutto. L’emigrante Garofoli è incapace di fingere. Non può più fingere al cospetto dell’evento. E, colto da gioia irrefrenabile, esplode in un urlo animalesco. Un virulento mix di gioia, rabbia, sfida, riscatto, vendetta. Un urlo potente, liberatorio, che scaccia via anni di amarezza, di oppressione, di asservimento. Ci siamo allora chiesti cosa può veramente rappresentare il gol. Azione che segue un percorso, ne possiamo convenire, oltre il calcio, oltre le mura che delimitano lo stadio. Ci siamo accorti, con sorpresa, di come il calcio entri, molto più di altri sport, in contesti che di calcistico hanno meno di zero. Anche nel dramma della vita (e il film di Brusati è indiscutibilmente drammatico) quel gesto di libertà non si trova lì per caso.
Un altro valido esempio è il bellissimo film di Alvaro Brechner: “Una notte di 12 anni”, vincitore di vari premi cinematografici e del prestigioso “Goya”, riconoscimento spagnolo come migliore sceneggiatura originale. Diciamolo apertamente, il film è durissimo, con dialoghi ridotti al necessario. Il lavoro ripercorre gli anni della dittatura uruguaiana (1973-1985) attraverso le inimmaginabili sofferenze di tre uomini, appartenenti ai gruppi di guerriglia urbana conosciuti come Tupamaros. Dodici anni di strazi e torture fisiche e psicologiche. In una tale situazione a nessuno verrebbe in mente il calcio. Eppure nella pellicola di Brechner troviamo tre momenti emblematici. Una piccola televisione, montata nel corpo di guardia sotterraneo, manda in onda velocemente immagini sfocate di due gol. Nel primo si riconosce a malapena la gioia di un giocatore con la maglia de La Celeste (come è denominata la nazionale uruguaiana), nel secondo una rapida rovesciata in quella che crediamo sia la nazionale argentina. Uno dei momenti più toccanti del film è quando uno dei tre reclusi viene condotto nel cortile deserto della prigione. In lontananza si vede una porta dipinta sul muro. Il detenuto è solo, scarno, emaciato, non sa cosa fare. Poi improvvisamente accenna a quello che crediamo sia un passo di danza. La danza diviene poi un palleggio immaginario, che si trasforma in un illusorio contropiede verso la porta di mattoni. Il finale è l’accenno ad un tiro verso quell’inerme bersaglio. E’ il vuoto, il nulla ciò che viene colpito, ma ciò basta a suscitare entusiasmo, grida e incitamenti tra tutti gli altri detenuti aggrappati alle sbarre, testimoni dell’evanescente contropiede. Ma è nelle putride galere che avviene il miracolo liberatorio. Una radiolina trasmette una partita. Il truce secondino, mosso da pietà, alza leggermente il volume. In quel mentre la palla trova la via della rete. Il resto è facilmente immaginabile. Il telecronista fa la sua parte, in perfetto stile sudamericano. I tre detenuti, separati in altrettante celle, sfogano tutti quegli anni di terrore, disperazione e sofferenza. Gooooooooooooool!!!!!
È quello il grido che scuote ed echeggia nei calabozos (celle sotterranee).
Un grido di libertà, di speranza, un grido da sbattere sulla faccia di chi ha praticato il male. Una purificazione dello spirito. Anche per quelli che tentarono la via di Capalbio, dove qualche malcelata radiolina (lo dice la storia) fece, ob torto collo, la sua giusta apparizione.