“We all live in a Georgie Best world” è un coro che i tifosi del Manchester United hanno dedicato ad uno dei maggiori talenti della storia del calcio, George Best appunto. Le note del coro, ovviamente, sono quelle dei Beatles (Yellow Submarine), dei quali Best ne veniva considerato “il Quinto”, ed essere accostato a Paul, George, Ringo e John, in Inghilterra, negli anni ’60 e ‘70, è probabilmente uno dei due modi migliori per spiegare a chiunque la magnificenza assoluta dell’ex numero 7 dei Red Devils. L’altro, era vederlo giocare a pallone con indosso la loro maglia.
Poco più di 15 anni sono passati da quel 25 novembre 2005 in cui il talento nord-irlandese perse la vita all’età di 59 anni. Una vita vissuta al massimo, in tutte le sue sfaccettature, scandita da anni gloriosi e bui nello stesso tempo, spesa tra le difficoltà di un paese segnato da guerriglie interne, le gioie del calcio e poi lo sfarzo totale dei suoi vizi preferiti: le donne, le macchine veloci e, purtroppo, l’alcol.
George Best nasce il 22 maggio del 1946 a Cregagh, un quartiere nella parte est di Belfast (Irlanda del Nord), in un periodo difficile per il paese e per le voglie di un bambino che già in tenera età aveva solo l’interesse di giocare a calcio. Questo ad esempio, uno dei motivi che lo portava a marinare la Grosvenor High School, una scuola prestigiosa nella quale però si praticava solo il rugby. La sua famiglia era numerosa, oltre a George infatti era composta dal padre Dikie, la madre Anne e poi da 6 figli (4 femmine e due maschi: Carol, Barbara, Julie, Grace e Ian, oltre allo stesso George). I Best erano una famiglia protestante, il padre faceva parte dell’Ordine di Orange ed era tornitore ai cantieri navali, mentre la madre faceva l’operaia in una fabbrica di sigarette e morì prematuramente nel 1978 per una malattia cardiovascolare legata all’alcolismo.
Entrambi i genitori volevano ovviamente il meglio per i propri figli, anche fosse stato lontano da casa, e la prima opportunità arrivò per George all’età di 15 anni quando, durante una partita con ragazzi di due anni più grandi di lui, fu notato da Bob Bishop, osservatore del Manchester United, il quale rimase estasiato dalle gesta del piccolo George tanto da mandare immediatamente un telegramma all’allenatore dello United dell’epoca, Matt Busby, con su scritto: “Credo di averti trovato un genio”. Tutto questo, nonostante il giovane talento di Belfast fosse stato scartato dal Glentoran (squadra di cui era un accanito tifoso) per la sua fisicità esile e minuta.
“Quando sei un ragazzino e usi la tua immaginazione, ti vedi fare goal a Wembley con 100.000 tifosi che urlano il tuo nome. Non pensi a tutto ciò che ti toccherà prima di quel momento, tipo startene in un campo d’allenamento gelato con le ginocchia che tremano con davanti questi giganti che fino a poco prima conoscevi solo per nome”.
Il primo impatto del giovane Best con il mondo Red Devils non è stato dei migliori. Dopo solo due giorni all’Academy dello United infatti, quella che poi negli anni a seguire sarà la stella del club di Manchester, decise di prendere il traghetto e tornarsene a casa, e solo l’intervento di Matt Busby in persona lo convinse poi a ricambiare idea.
Un paio d’anni di gavetta con la seconda squadra del club e poi l’esordio in campionato il 14 settembre del 1963, all’età di 17 anni, e due mesi più tardi (28 dicembre) fece anche il suo esordio in FA Cup nella vittoria per 5-1 contro il Burnley, mettendo a segno anche la sua prima rete con la maglia dello United. Da quel momento in poi venne aggregato definitivamente alla prima squadra ed iniziò la sua scalata verso il successo.
La tecnica di Best era sopraffina e la sua abilità nel dribblare gli avversari lo portava a rimediare brutte entrate nei suoi confronti nel tentativo di fermarlo, tanto che Busby lo sottopose ad allenamenti mirati, spesso di intensità dura e pesante, per cercare di rinforzare il fisico del suo giovane talento e permettergli di superare indenne anche i match più aspri.
“Se Matt Busby fosse stato più duro con me forse le cose sarebbero andate meglio. L’avevo sempre fatta franca, pensavo di poter fare tutto ciò che volevo. Le regole della squadra non valevano per me. Loro non dovevano convivere con il fatto di essere George Best”.
La stagione ’64-’65 fu la prima che Best disputò interamente in prima squadra, partecipando attivamente alla vittoria del campionato dei suoi. L’anno seguente ottenne la consacrazione definitiva nel mondo del pallone quando, nella vittoria per 5-1 dello United contro il Benfica di Eusebio, in Portogallo, nei quarti di finale di Coppa dei Campioni, Best segnò una doppietta nei primi 11 minuti di gioco e le porte dell’Olimpo si aprirono definitivamente per lui. Non a caso, da li in poi, venne definito il Quinto Beatles.
“Non puoi solo andare là fuori e battere l’avversario. Devi impressionarlo al punto che non vorrà mai più vederti”.
Nella stagione ‘67-’68, all’età di 22 anni, Best raggiunse probabilmente l’apice della sua carriera. Fu determinante in tutta la massima competizione europea (eliminando il Real Madrid e battendo in finale il Benfica) e, prima volta per una squadra inglese, arrivò a vincere la Coppa dei Campioni prima, ed il Pallone d’Oro subito dopo.
“Avevo 22 anni quando nel 1968 vinsi la Coppia dei Campioni con il Manchester United e fui nominato Calciatore Europeo dell’Anno. Avrebbe dovuto essere il fischio di inizio di una sfolgorante carriera, e invece fu solo l’inizio della fine”.
Questo è probabilmente il momento in cui nella vita del talento nord-irlandese si è verificato il cosiddetto giro di boa. Inizia infatti il suo lento declino a livello calcistico e a far parlare di se sono maggiormente le sue gesta fuori dal campo di gioco. Le pubblicità, un arresto per un presunto furto, le comparsate con le modelle più belle del momento, il gioco d’azzardo, le macchine sportive e quello che si rivelerà essere poi l’unico avversario che non è riuscito a dribblare: l’alcol.
“Ho sempre voluto essere il migliore in tutto: in campo il più forte, al bar quello che beveva di più”.
George Best creò un vero e proprio personaggio con la sua figura, faceva tendenza, ispirava mode e faceva impazzire le ragazze di ogni parte del mondo, così come tutti i suoi fan che pendevano dalle sue labbra, specie quando rilasciava dichiarazioni del tipo: “Se fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelè”. Lo stesso Pelè che nel 1966 dichiarò: “George Best è il miglior calciatore del mondo”.
“Ho amato almeno 2000 donne senza doverle sedurre, mi bastava dire ‘Ciao, sono Best del Manchester United’”.
In nazionale non ebbe lo stesso successo che con lo United, collezionò in totale 37 presenze mettendo a segno 9 gol. Non riuscì mai a partecipare ai mondiali ed anche sul finire della sua carriera, nonostante le varie problematiche che lo riguardavano, continuò ad essere convocato nella rappresentativa del suo paese fino al ritiro.
Nel 1974, a seguito di più di qualche vicenda negativa, specie con i compagni di squadra, il Belfast-Boy lasciò Manchester, indossando da li in poi tantissime maglie di squadre con le quali non si avvicinerà più neanche lontanamente alle glorie vissute tra le mura dell’Old Trafford. Alternerà le sue comparse tra campionato statunitense, scozzese, il ritorno in Inghilterra, poi Australia, Hong Kong, ancora Inghilterra, per poi chiudere definitivamente la carriera nel 1984 nella sua Irlanda del Nord, senza però far registrare a tabellino alcuna presenza.
“Quando il calcio era importante e io giocavo bene, non vedevo l’ora di alzarmi la mattina: era la mia unica ragione di vita. Quando il gioco non è bastato più a buttarmi giù dal letto, non ho visto altri motivi validi per smettere di bere”.
Aforismi, leggende, imprese folli ed alcune tutte da ridere, anche questo era George Best fuori dal campo. L’incarnazione della definizione “genio e sregolatezza”, era questo il “Georgie Best world” cantato dai tifosi dello United, un mondo in cui lui ha estremizzato ogni sua passione, vivendo sempre alla ricerca del superamento del limite. Un vita condita anche dalla compagnia di ben 7 Miss Mondo e di momenti (da lui stesso raccontati) come quello con la maglia dell’Irlanda del Nord contro l’Olanda nel 1976: “Giocavo contro Johan Cruyff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruyff. Gli arrivo davanti, gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: ‘Tu sei il più forte di tutti, ma solo perché io non ho tempo’”.
Nel suo post-carriera calcistica, indimenticabili anche i commenti sui vari calciatori del momento, specie perché chiedendo opinioni a chi notoriamente non ha mai avuto peli sulla lingua, era lecito aspettarsi poi di tutto in risposta come ad esempio la sua opinione su Beckam (“Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto. A parte questo, è a posto”), in completa antitesi invece con il suo pensiero su Cantona, ad esempio (“Darei tutto lo Champagne che ho bevuto nella mia vita per poter giocare al suo fianco in una partita di Champions League all’Old Trafford”), o su Cristiano Ronaldo (“Ci sono stati vari giocatori nel corso degli anni segnalati come il nuovo George Best, ma questa è la prima volta che è stato un complimento per me”), giusto per restare in tema Red Devils targati numero 7.
Il 25 novembre del 2005 la stella di Best smise di brillare sulla terra e continuò in cielo, oltre che nel ricordo di chi ha avuto l’onore di viverlo o semplicemente di ammirarne le gesta calcistiche anche a distanza di anni, perché amante dello sport di cui il talentuoso George ne è stato un interprete a suo modo unico.
Toccante il suo ultimo messaggio dall’ospedale, poco prima di morire, rivolto in particolar modo ai giovani: “Non morite come me”.
Il giorno del suo funerale, al palazzo di Stormont: la sede del Parlamento nazionale a Belfast, erano presenti contemporaneamente la fidanzata del momento e le due ex-mogli e poi circa 500.000 persone, una vera e propria marea di gente che lo accompagnò dalla tenuta di famiglia alla sede dove appunto si svolse la funzione, fino poi al cimitero di Roselawn dove fu sepolto accanto alla madre.
Ad offrire al Belfast-Boy l’ultimo saluto durante i funerali, numerosissimi personaggi dello spettacolo, dello sport (come Sven Goran Eriksson, Alex Ferguson e molti suoi ex compagni di nazionale) e tanta, tanta gente comune. Quella stessa gente che si immedesimava in Best, aveva sognato di essere lui e lo amava come simbolo di un’epoca ormai finita, oltre che come figlio di successo di quell’Irlanda del Nord che lo ha adorato fino all’ultimo ed anche oltre.
“Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci… Tutti gli altri li ho sperperati”.