giorgio porrà

La vocazione per il racconto è nel suo Dna. Fin da quando, nella sua Sardegna, muoveva i primi passi da cronista in un’emittente locale. Che l’ha sapientemente svezzato consegnandoci uno dei talenti più brillanti del panorama nazionale. Giorgio Porrà ne ha fatta di strada da quel 1988, anno in cui è diventato professionista. E così, dopo essere passato per le forche caudine dell’inevitabile gavetta, il giornalista sardo si è consacrato prima a Telepiù e dopo a Sky, di cui, oggi, è uno dei volti più noti e apprezzati. Un valore aggiunto per l’emittente, cui regala pezzi di sport di alta scuola nei suoi contenitori che sono perle rare nella tv di oggi. Porrà non è un asettico conoscitore di football, ma un narratore straordinario che associa mirabilmente il calcio ad altre forme nobili di arte come il cinema, una delle sue grandi passioni, la musica e la letteratura. Porrà, nei suoi programmi, va oltre il fatto cronachistico del calcio: scava, approfondisce e racconta con uno stile affascinante aspetti meno conosciuti, riportando in superficie storie sommerse e dimenticate. Una voce preziosa cui tanto dobbiamo. In questa intervista si racconta con grande passione. L’eloquio è elegante e torrentizio, anche quando parla delle sue cicatrici come le perdite premature dei suoi compagni di viaggio che si chiamano (presente indicativo d’obbligo) Vialli e Rossi, nel cui ricordo continua a lavorare con la stessa feroce determinazione di un ragazzo alle prime armi.

La genesi della sua professione?

“Sono cresciuto intorno alla fine degli anni Ottanta nel gruppo Unione Sarda Videolina. Sull’isola ho fatto la gavetta, senza la quale non si va da nessuna parte, come suggerisco spesso ai più giovani. Ho avuto la fortuna di fare subito tutto, imparando i primi segreti del mestiere. Prima di specializzarmi nello sport ho fatto la cronaca nera, occupandomi anche di politica e costume”.

E poi cosa successe?

“Mi affidarono un programma sul Cagliari che in quegli anni, sotto la guida di Claudio Ranieri, dalla C arrivò rapidamente in serie A, ragione per cui sono molto legato al tecnico romano. Accade poi che lui da Cagliari andò al Napoli e io mi trasferii a Milano dove stava per nascere la tv satellitare grazie all’intuizione di Silvio Berlusconi che, all’inizio degli anni Novanta, trasferì il cinema e lo sport nella tv a pagamento. All’inizio sembrava una scommessa visionaria, perchè arrivava anche in un momento di congiuntura economica complicata per gli italiani. Pensare che quest’ultimi potessero pagare un abbonamento satellitare con la parabola appariva velleitario e avventuroso e invece, dopo tanti anni, abbiamo 5 milioni di abbonati: quell’intuizione si rivelò un successo”.

Quanto è cambiato il giornalismo rispetto ai suoi tempi?

“Moltissimo. L’avvento delle nuove piattaforme, i social e internet hanno sparigliato le carte. Io sono figlio di un giornalismo quasi pioneristico, quando il mestiere si faceva ancora sulla strada, ora non è più così. Quanto allo sport, le esperienze maturate a Telepiù prima e a Sky dopo mi hanno portato sulla strada della narrazione che si era un po’ persa. Lo storytelling, come si dice adesso, esiste in realtà dai tempi di Omero. Sono voluto tornare sul solco dei grandi come Zavoli e Ciotti cercando di restituire massima dignità al gioco, a chi lo pratica e a chi lo guarda. Nascono in quest’ottica programmi come “Lo Sciagurato Egidio” e “Italia Germania 4-3″. Io continuo a pensare che quei programmi siano in controtendenza rispetto al chiacchiericcio un po’ sterile dei talk show e al moviolismo ossessivo. Sono contenitori che partono dalla certezza che il calcio nella sua forma più nobile e ispirata è un’arte, così come lo sono il cinema, la musica e la letteratura”.

C’è, secondo lei, affinità tra le forme d’arte che ha appena citato?

“Assolutamente sì. Vedo, ad esempio, una stretta parentela tra un ricamo di Maradona e un tango di Piazzolla, tra una punizione chirurgica di Messi e un dialogo di Simenon, così come ritengo che l’estetica di Oscar Wilde si avvicini molto alla dittatura degli addominali di Cristiano Ronaldo. Nei programmi che faccio adesso continuo a lavorare proprio su queste contaminazioni”.

A proposito di “Sciagurato Egidio”: ha mai conosciuto Gianni Brera?

“Purtroppo no, lui usciva di scena e io iniziavo a fare sul serio. Ma l’ho studiato tanto e continua a essere una mia fonte di ispirazione preziosissima. Nei miei programmi cito spesso i suoi libri, ultimamente sto lavorando sulla figura di Luciano Spalletti che mi porta a pensare al Mondiale del ’74 (quello dell’Azzurro Tenebra di un altro fuoriclasse come Giovanni Arpino). Fu, come sappiamo, una spedizione sfortunata, per raccontare la quale sono andato a recuperare proprio la “Leggenda dei Mondiali” di Brera, altro caposaldo della letteratura italiana. Lì c’è il racconto di quel Mondiale sfortunato. Gianni Brera è sempre presente, è il punto di riferimento della nostra categoria, ha inventato un linguaggio, è stato un genio assoluto prestato allo sport, lui letterato e romanziere puro”.

Fu il grande giornalista pavese a coniare per il suo idolo il soprannome di rombo di tuono: chi è stato per lei Gigi Riva?

“E’ la ragione per cui io faccio questo mestiere. Sono uno di quei bambini che ha vissuto la favola meravigliosa del Cagliari del ’70. All’epoca era difficile solo pensare che una squadra isolana potesse vincere uno scudetto. Gigi ha firmato reti meravigliose, penso a quella rovesciata contro il Vicenza nell’anno dello scudetto, il crimine perfetto per un attaccante. Riva, salvando sè stesso ha salvato un’isola, da noi trovò l’ambiente ideale per riscattarsi. Incatenandosi all’isola ha protetto la sua diversità trovando finalmente quella serenità che gli era mancata in gioventù per via dei numerosi lutti. Ha riscattato a suon di prodezze un popolo intero, restituendogli dignità. Prima del suo arrivo a Cagliari la Sardegna era un semplice puntino sul Mediterraneo. Noi sardi gli dobbiamo riconoscenza eterna”.

Qualche anno dopo, esattamente 50 anni fa, fu la banda Maestrelli a cucirsi sul petto il tricolore…

“Se c’è una squadra romanzesca è proprio la Lazio del ’74. Tutte le figure di quella squadra sono letterarie, da Chinaglia a Re Cecconi, della cui uccisione mi occupai a lungo anni fa. Un fatto di sangue ancora avvolto da tanti misteri, un giallo italiano, al di là delle verità processuali e di quello che ci hanno raccontato. Quel gruppo pazzo e ribelle ha segnato un’epoca, non c’e dubbio. Gente come Chinaglia, Martini e Petrelli portarono per la prima volta nel calcio la fascinazione per le armi. Di quel sodalizio esiste una miniera di aneddoti, raccontati dalla brillante penna del collega Guy Chiappaventi nel suo bellissimo “Pistole e Palloni”, libro alla base delle ricerche dei colleghi per il documentario che Sky ha recentemente dedicato a quella Lazio”.

Italia Germania 4 a 3 è stata veramente la partita del secolo?

“In quegli epici supplementari, sì. Prima era stata una sfida gonfia di noia dopo l’iniziale gol di Boninsegna seguito dal graffio casuale di Schnellinger. Fu lui a trasformarla in quel meraviglioso psicodramma. Ricordo bene quella sera, vidi la sfida con mio nonno e l’immagine del diagonale maligno di Riva, a distanza di più di mezzo secolo, continua ancora a procurarmi brividi”.

Lei ha raccontato tante storie di sport: ce n’è una cui è particolarmente legato?

“Ce ne sono diverse. Le storie di Riva e Vialli, ma anche quella che ho appena raccontato di Giuliano Giuliani, il portiere più vincente della storia del Napoli, una vicenda sepolta e dimenticata. Ho pensato che fosse necessario raccontarla per restituire dignità a Giuliano e anche per fare una carezza alla figlia che, quando il papà se ne andò, aveva soli 7 anni e scoprì anni dopo le ragioni della morte del padre su Google mentre preparava gli esami di maturità. Ma anche la storia di Socrates, il giocatore più rivoluzionario della storia del calcio mondiale, intellettuale raffinatissimo con in tasca una laurea in medicina. L’esperienza della “democrazia corinthiana” resta qualcosa di unico che vale la pena di continuare a raccontare. Il calciatore brasiliano con le sue idee contribuì a debellare la dittatura in Brasile portando la Repubblica nel Paese. L’idea di democrazia di cui era strenuo sostenitore contagiò tutto il popolo brasiliano. Quell’esperienza singolare, raccontata dalla viva voce di Socrates, è una cosa che ricordo con particolare piacere”.

Ha appena nominato Vialli…

“Una ferita che mai si rimarginerà. Luca è stato un grande amico, con lui ho condiviso 15 anni a Sky. Ci ha lasciato una grande eredità, che si compone di tanti piccoli tesori di civiltà e saggezza che ha saputo distribuire con naturalezza senza mai atteggiarsi a profeta: non era nel suo stile. Ha affrontato con dignità e coraggio i cinque anni della malattia, continuando a lavorare con feroce applicazione per cercare di eliminare dalla mente, prima che dal corpo, il cancro”.

Ha parlato di Brasile: chi preferisce tra Pelè e Maradona?

“Molto difficile rispondere. Maradona l’ho visto molto di più, è stato il genio fragile, che ha fatto cose fantastiche praticamente da solo. Pelè è stato il calciatore che ha anticipato tutto, la prima icona multiculturale, il primo che ha investito in progetti d’affari e anche l’uomo che ha inventato dei colpi nuovi dal punto di vista tecnico. Però tutta l’epica che c’è intorno a Diego non la possiamo sottovalutare, ma solo esaltare”.

Il momento più bello della sua carriera?

“Tutte le volte che mi metto davanti a una pagina bianca e sviluppo un’idea concentrandomi su una figura o una storia”.

E quello più buio?

“I lutti, i fratelli che nel corso del cammino mi hanno lasciato come Vialli e Rossi. I ricordi professionali si mescolano fatalmente a quelli privati. Ricordo la finale del 2010 tra Inter e Bayern Monaco, l’ultima affermazione di una squadra italiana in Champions. Stavo male, avevo un tumore, e Luca e Paolo mi aiutarono tanto mettendomi, nonostante tutto, sempre a mio agio. Io sono ancora qui, loro invece mi hanno lasciato e questo è un pensiero che mi accompagna sempre”.

Ha rimpianti?

“Francamente no, sono un vecchio ragazzo di provincia fortunato che ha fatto quello che gli piaceva. Mi sono trovato nelle condizioni di inventare e sperimentare delle cose nuove come il racconto dello sport. Il mio percorso lo devo sia alla mia buona stella sia a una piccola componente di talento che mi attribuisco, oltre agli editori e ai direttori che hanno creduto in me”.

Da dove nasce il suo grande amore per il cinema?

“E’ una passione che nasce con Truffaut. “I quattrocento colpi” e Farenheit 451″ sono i film della mia vita e Antoine Doinel, l’alter ego del regista sullo schermo, uno dei miei eroi. Più in generale subisco la fascinazione della cultura francese. Per dire, il mio cane si chiama Maigret, omaggio appunto a Simenon”

Il giocatore italiano più forte di sempre?

“Sarò anche di parte, ma per me resta Riva. Gigi è stato sicuramente il più grande bomber azzurro di sempre, il suo record di reti con la Nazionale è inattaccabile”.

Quanto manca uno come lui alla nostra Italia?

“Tremendamente. Abbiamo avuto sempre una grande tradizione di attaccanti, ma ora facciamo fatica. In ogni caso il problema esisteva già ai tempi della gestione Mancini. Scamacca sembra promettere bene. Spalletti punta forte su Raspadori che conosce bene, ma non sottovaluterei Retegui”.

Che futuro intravede per gli azzurri di Spalletti?

“Sono molto fiducioso, il tecnico toscano è talmente bravo che saprà estrarre il coniglio dal cilindro. Confido molto in lui, da commissario tecnico ha già imposto le sue regole e le cose mi sembra stiano funzionando. Penso che possa trovare la pietra filosofale”.

Se non avesse fatto il giornalista?

“Mi piace risponderle parafrasando proprio Riva: il contrabbandiere”.

intervista a cura di Libero Marino